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LUNA e PASTA

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10/6/2010- Come eravamo: una fabbrica-bottega di "maccheroni" a Napoli agli inizi del 1900. Pasta seccata all'aria, come usano fare ancora i Martelli di Lari

Tradizioni

La pasta

Un buon piatto di pasta, adeguatamente condito, è una poesia. E’ un’arte raffinata, sottile. Non stupisce perciò che questo cibo abbia incrociato la propria strada con quella di poeti, di scrittori, e perfino di uomini politici.
Orazio celebrò le lagane, antenate delle lasagne. I maccheroni, unici nel loro genere, diedero vita molto tempo dopo addirittura ad un genere letterario: la poesia maccheronica. Impasto (non a caso) di cultura alta e bassa, che fa il verso (e anche questo non è un caso) al latino e all’italiano dotto, mescolandoli in una lingua nuova ed improbabile.
Il maggior esponente di questa tradizione goliardica fu Merlin Cocai, al secolo Teofilo Folengo, mantovano (1491-1544), autore delle “Maccaronee” e di tanto altro.
Nella visione di Folengo, le Muse godono “di cento caldaie che mandano il loro fumo verso le nubi, piene di caciottine, maccheroni e lasagne”.
Un altro grande gaudente, Giacomo Casanova, compose a Chioggia, nel 1734, un sonetto in onore dei maccheroni. Pare che in quell’occasione se ne mangiò tanti, da essere incoronato Principe dei maccheroni.
L’opera più importante sull’argomento fu però quella di Antonio Viviani, napoletano, poeta e commediografo di ottima pasta. “Li maccheroni di Napoli” è un poema giocoso, ed è interessante anche perché in esso si trova per la prima volta il termine “spaghetti”. E sono illustrate le varie fasi della lavorazione della pasta.

La pasta, per la verità, ieri come oggi, la mangiavano tutti: belli e brutti, incliti e dotti.
Brutto e dotto era di certo Giacomo Leopardi, che, non troppo versato nei piaceri della carne, probabilmente non si dedicava nemmeno a quelli della pasta. Lo si può immaginare dall’ironia con la quale, nella poesia “I nuovi credenti” del 1835, descrive il troppo amore del popolo napoletano “de’ maccheroni suoi”.
Gli rispose (inevitabilmente, per le rime) il napoletano Gennaro Quaranta, con una poesia dal titolo “Maccheronata”, in cui si legge, tra l’altro:
“Oh, mai non rise quel tuo labbro arsiccio
né gli occhi tuoi lucenti ed incavati
perché…non adoravi i maltagliati,
le frittatine all’uovo ed il pasticcio!”

Oltre che poesia, la pasta è musica. Ben lo sapeva Gioachino Rossini, che amava definirsi “Pianista di terza classe, ma primo gastronomo dell’universo”.
Cucinava bene, Rossini. La sua specialità erano i bucatini al fois-gras, che farciva con una siringa d’argento e avorio fatta costruire appositamanente. La pasta gli piaceva tanto, che se ne faceva mandare delle intere casse da Napoli, città che conosceva bene. Nel 1859, lamentandosi con un amico per il ritardo di una di queste spedizioni, arrivò a firmarsi “Gioachino Rossini, Senza Maccheroni”.

Per il suo potere di distendere gli animi, alla pasta dovrebbe essere assegnato il Nobel per la Pace. E non basta: nella sua ormai lunga storia la pasta è stata utilizzata addirittura come metafora politica.
Parigi, poco prima del 1860. L’Imperatrice Eugenia dà una festa. Tra gli invitati c’è l’Ambasciatore del Regno di Piemonte (l’Italia è ancora da venire, ma non tarderà molto) Costantino Nigra.
Per far arrivare, un messaggio al suo boss (il Conte di Cavour), l’Imperatrice ha dato disposizioni perchè venga mostrata agli ospiti un divertente siparietto.
Ad un attore, grossolanamente truccato da Cavour, vengono servite delle pietanze. Ciascuna delle quali fortemente allusive: gorgonzola e stracchino (la Lombardia), parmigiano (il Ducato di parma), e mortadella (l’Emilia).
L’uomo mangia tutto (leggi: questi territori sono già stati annessi). A fine pasto arrivano delle belle arance siciliane, e anche queste finiscono divorate. A questo punto giunge sulla tavola l’ultima portata: un gigantesco piato di maccheroni. Mangerà anche questi?
No. Il falso Cavour alza le mani e dice: “Per oggi basta. Conservatemeli per domani….”
Sipario, applausi.
Nigra si annota tutto mentalmente, e il giorno dopo riferisce a Cavour. Quello vero. Il quale capisce perfettamente che la pantomima significa “la Sicilia prendetevela pure; ma Napoli, no.”
Rimanendo nel codice, il Conte di Cavour fa arrivare allora all’Imperatrice questa risposta:”I maccheroni non sono ancora cotti. Quanto alle arance che stanno già sulla nostra tavola, siamo ben decisi a mangiarle”.
E così avviene. Quando sarà pronto ad annettersi anche il Regno di Napoli, Cavour non si scorderà della metaforica pasta, scrivendo: “I maccheroni sono cotti, e noi li mangeremo”.

Sarà per loro forma, ma i maccheroni (nella variante “spaghetti”), continuano a legarsi strettamente con la politica.
Fu indubbiamente per motivi politici che Filippo Tommaso Marinetti, nel Manifesto della cucina futurista del 1931, si scagliò contro “la pastasciutta, assurda religione gastronomica italiana, simbolo passatista di pesantezza, di ponderatezza, di tronfiezza”.
Se però, oltre a scrivere il manifesto del Futurismo, avesse letto nel proprio futuro, avrebbe saputo che qualche mese dopo sarebbe stato sorpreso a Milano nell’atto di divorare un grosso piatto di spaghetti.
A questo punto giocò d’anticipo, scrivendo di sé: “Marinetti dice basta/ messa al bando sia la pasta./ Poi si scopre Marinetti/ che divora gli spaghetti”.

Non possiamo dimenticarci del grande attore poeta gastronomo Aldo Fabrizi che in un sonetto “si lamenta” della dieta:

Me dispiace, ma nun ce la faccio a discorre
Nun me sento bene pe gnente
Che ce vòi fà .. l’anni so anni
e l’acciacchi nun perdoneno
Ma quello che me ce rode tanto è che nun me và de magnà
come se dice .. m’ amanca l’appetito
nun ciò voja de gnente
nun me sento è inutile .. nun me sento
eppoi me tocca de sta puro a dieta
Pensa che puro oggi so stato a stecchetto
so ito liscio come l’ojo:
du’ spaghetti a cacio e pepe .. na lombata de vitella,
du fronne de lattuga, na pera . . e .. Hai capito?
Me tocca de sta a dieta, possin’ammazzalla, purtroppo.

 
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