Un paese che amo, il paese della mia mamma.Anche ora quando vado a RIPAFRATTA sono la figlia della "Cocca".
Un paese con una storia importante che conserva vestigia di grande rilievo.
Un paese rimasto inalterato nel tempo, non ci sono insediamenti nuovi, potrebbe essere il set di film d'epoca perché anche le case, le facciate conservano la patina del tempo.Un paese che è ancora comunità.
Ana, sangiovè, tempiè, dinamè, tempiedolo, lodoiegolo ed altre intraducibili parole.
La Ottobrina del Puntoni viveva nella tenuta dei duchi che avevano dato una casa e un podere alla sua famiglia dedicata alla pastorizia.
Già altre famiglie abitavano nella grande casa colonica, Fratini, Baglini e Del Corso, ma queste erano di contadini e, stranamente, il nome del podere fu legato (coincidenza?) al mestiere dell’ultimo arrivato: Pecoreccia.
La bimba era troppo piccola per andare in giro con il padre e i fratelli nel portare al pascolo capre e pecore, ma non lo era per consegnare ai padroni la ricotta fresca di giornata e qualche cacio primo latte.
Ogni mattina si faceva passo passo, sgambettando e raccogliendo fiori e fili d’erba, il lungo viale che il vecchio duca aveva intitolato alla figlia Isabella e che portava alla villa dove conobbe una bambina pressappoco coetanea, circa 10 anni, e a quell’età non si fa certo caso alle differenze sociali.
La tata guardava con affetto e compiacenza quell’amicizia, anche perché la vicinanza con una mangiona, giocosa, vulcanica pastorella non poteva che far bene alla disappetente e malinconica piccola nobile.
Il problema era semmai nella casa Puntoni dove i genitori di Ottobrina non avevano a piacere che si “fraternizzasse” con i padroni… che diamine…ognuno al suo posto!
Le visite però erano, dovevano essere, giornaliere e le bambine continuarono a giocare e Ottobrina assaporava la gioia di stare con una nobile, giocare con i suoi strani giocattoli e ancor più il vero assaporamento fisico dei bei dolci che la cuoca francese faceva ogni giorno.
“Mamma, mamma sapessi cosa ho mangiato dalla signorina (per ordine di suo padre non doveva chiamarla per nome). Ho mangiato il gattò”
“Aveva ragione tu’ pà a ditti che ‘un ti dovevi ‘ntramescolà con quella gente ricca. Son de’ trugoli a mangià ‘r gatto! Vatti a lavà, vai!”
“O mamma, ma che gatto e micio, il gattò è un dolce, bono da schiantà, si chiama così ‘n franchese!”
Dopo un po’ di tempo:
“Mamma, mamma sapessi cosa abbiamo fatto con la signorina. Abbiamo fatto il potaggio!”
“Aveva ragione tu’ pà a ditti che ‘un ti dovevi ‘ntramescolà con quella gente ricca. Son dei matti a mette’ le forbici da pota ‘n mano a ‘na bimbetta. O che gente è? Fatti vedè se scianguini da quarche dito, vai!”
“O mamma, ma che forbici e pota, il potaggio è una minestra che noi si faceva per finta coll’aveggini di ‘ucina, si chiama così ‘n franchese!”
E così la bimba imparava il suo “franchese”, come diceva lei, e un giorno ebbe un regalo portentoso dall’amica, una palla, una vera palla che rimbalzava e scappava da ogni parte, non come quella che sua madre le aveva fatto con il gilè del nonno dopo che una capra l’aveva biascicato tutto ed era stato impossibile rammendarlo.
Ottobrina dormiva con la palla, rossa, andava a scuola dalle suore nel pomeriggio portandosi dietro la palla e insegnava alle altre bimbe, che erano lì ad imparare il cucito, anche il nuovo gioco che le aveva insegnato la duchessina.
Era facile e si imparava subito tirare la palla sul muro e a riprenderla dopo una serie di batti le mani, fai una giravolta, su di un piede, un saltello e altre acrobazie, ma difficile era il ricordarsi quelle parole “franchesi” che accompagnavano il gioco.
O come diceva la signorina quando tirava in alto la palla? an…ot, boh! meglio “ana”, più corto e più facile e poi quando saltellava con un solo piede? san.. boh! facciamo sangiovè e tempiè e poi tanto le bimbe non lo sanno e anche se sbaglio non se ne accorgono, l’unica cosa che mi ricordo è che alla villa parlano tutto a cantilena: bongiù, messié, vualà, mersì, trebò, uasò e così faccio anch’io.
Un Natale fece visita alla villa un vecchio nobile signore “franchese” che voleva passare qualche giorno con i nipoti e si innamorò della tenuta e del podere Pecoreccia tanto che volle farlo sapere ad un altro nipote che viveva nel loro castello di Belfort e spedì una cartolina: questa.
Il signore che scriveva questa bellissima cartolina era Jacques Marie Emanuel de Fitzjames, duc de Fitzjames, padre di Jacqueline Arabella Fitz-James sposa di Scipione Maria Giovanni Battista Borghese Duca di Salviati, marchese di Montieri e di Boccheggiano che insieme riportarono ai grandi fasti la Tenuta Salviati passata alla famiglia Borghese di Roma per la mancanza di discendenti maschili nel ramo.
Ricordo con piacere la realizzazione di un progetto che la coppia portò con successo alla ribalta del mondo della sanità: Il Bambin Gesu.
L'Ospedale Pediatrico Bambino Gesù è un ospedale pediatrico di Roma che sorge su un'area extraterritoriale a favore della Santa Sede.
L'Ospedale “Bambino Gesù” fu fondato grazie alla generosa iniziativa della famiglia Salviati. Siamo nel 1869 e a Roma, come nel resto d'Italia, i piccoli malati vengono spesso ricoverati, senza alcuna attenzione particolare, nelle stesse corsie d'ospedale degli adulti. La duchessa Arabella Fitz-James, moglie del duca Scipione Salviati rimase profondamente colpita da questa realtà e si fece promotrice della fondazione di un ospedale pediatrico.
Il suo progetto venne immediatamente sostenuto dal duca e dai figli che, in occasione del suo compleanno, le donarono i risparmi contenuti in un piccolo salvadanaio (dindarolo) di terracotta, ancora oggi conservato in ospedale a ricordo di quel primo gesto di solidarietà. Affinché le famiglie nobili romane contribuissero economicamente all'impresa, venne stampato un "Programma per la fondazione di un ospedale di fanciulli" nel quale si sottolineava la necessità di realizzare uno stabilimento speciale per i fanciulli da intitolarsi Ospedale del Bambino Gesù, assistito dalle Figlie della Carità di San Vincenzo de' Paoli.
Insieme al programma venne stilato anche un "Regolamento provvisorio" in cui si specificava che sarebbero stati ammessi esclusivamente fanciulli di entrambi i sessi, nati o domiciliati a Roma, di età non inferiore ai quattro anni e non superiore ai dodici, affetti da malattie mediche e chirurgiche, eccetto però le croniche e contagiose.