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Nei giorni 26-27-28 aprile verranno presentati manufatti in seta dipinta: Kimoni, stole e opere pittoriche tutte legate a temi pucciniani , alcune già esposte alla Fondazione Puccini Festival.Lo storico Caffè di Simo, un luogo  iconico nel cuore  di Lucca  in via Fillungo riapre, per tre mesi, dopo una decennale  chiusura, nel fine settimana per ospitare eventi, conferenze, incontri per il Centenario  di Puccini. 

. . . per questo neanche alle 5. 50 prima di colazione. .....
. . . alle nove dopocena non ciai (c'hai) da far altro? .....
. . . il plenipotenziario di Fi, Tajani, ha presentato .....
Ieri 19 Marzo ci ha lasciato un Vs. concittadino Renato .....
per pubblicare scrivere a: spaziodonnarubr@gmail.com
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Il sole nutre
col suo splendore
il croco il bucaneve
la margherita. . .
Il cuore
cancella il dolore
se alimentato dall'amore
essenza della vita
Quando .....
Oggi è venuto a mancare all’affetto di tutti coloro che lo conoscevano Renato Moncini, disegnatore della Nasa , pittore e artista per passione. .....
Le Parole di Ieri
Da Mazzacchera a Mettitutto

23/4/2016 - 15:52

MAZZACCHERA
Lett: MAZZACCHERA. [Strumento per pigliare anguille].
La definizione italiana è impropria poiché la mazzacchera non è semplicemente uno strumento.
Uno strumento infatti si può acquistare, si può spendere del denaro per possedere più tecnologia, per avere prestazioni migliori, con la mazzacchera queste cose si possono ottenere solamente con la passione, l’impegno e molta esperienza.
Si parte dai beci o lombrichi, vermi di terra che si trovano luoghi umidi, nelle fosse più nascoste, vicino alle sugaie. Fatti i beci bisogna poi infilarli uno ad uno con uno stecchino (della granata di saggina) a cui è stato fatto una piccola incisione in fondo (nel centro, altrimenti non tiene) in cui si è passato un filo, spesso raddoppiato, di filofort.
Il filofort era il normale filo da cucito, quello delle sigarette, di cui “Filofort” era la marca più famosa e diffusa. Una volta infilati tutti i beci si ottiene una sfilza continua che viene avvolta a spire su se stessa fino a formare una matassina, tanto più grande quanto maggiore e il numero dei vermi. Viene legata quindi con un filo molto resistente, di solito filo di refe : [filo torto di lino o di canape] con cui si collega alla canna, viene messo il peso di piombo per farla stare a fondo ed è pronta. Non servono ami: l’anguilla morde i vermi e viene trascinata fuori dall’acqua senza che molli la presa.
La legatura della mazzacchera, la sua forma, il piombo, il filo, la canna, tutto contribuisce alla validità dello “strumento”. Ecco la sapienza, la tradizione, la destrezza e l’esperienza.
E’ una pesca affascinante ma infida: viene effettuata di preferenza la sera o la notte, talvolta in barca sul fiume o sulle rive e quando il Serchio è in torba. Dopo le piogge l’acqua del fiume trascina con sé fango e detriti diventando torbida, ma purtroppo anche la portata aumenta ed il fiume è più minaccioso e pericoloso. Quando l’anguilla morde i vermi rimane attaccata alla preda così tenacemente che il pescatore riesce a farla salire lentamente fino al pelo dell’acqua. Arrivata a questo punto con un ultimo deciso strappo la estrae dall’acqua e la fa cadere nella barca o nell’ombrello preparato allo scopo.
La bellezza della pesca con la mazzacchera consiste proprio in questa lotta fra il pesce e il pescatore durante il trascinamento della preda: attraverso la canna tenuta in mano si possono apprezzare tutti i fremiti ed i movimenti dell’anguilla che lotta per mantenere la preda e per non essere trascinata, contro la sua volontà, fino alla superficie dell’acqua. Qui entra in campo la sensibilità e l’esperienza del pescatore che deve capire quanto e come deve tirare l’esca senza che il pesce si stacchi.
Proprio in questa competizione di astuzia e di destrezza sta il fascino di questo antico tipo di pesca.
 
Aneddoto
Da Paperone, dietro, nell’orto di Treviso, fu sperimentato un nuovo metodo per fare i beci, operazione sempre faticosa e non priva di complicazioni per il reperimento della fossa e per il permesso di scavo. 
Nella terra umida per la pioggia fu piantato un bel pezzo di ferro e collegato, con un filo della luce, alla presa di corrente nella baracca.
In effetti qualche becio uscì dalla terra ma l’esperimento fu interrotto al primo urlo di Purtroppo che aveva in mano un ombrello con la punta di ferro senza manico, da cui aveva ricevuto una discreta e fastidiosa scossa elettrica.
 
MELA e PERA
Come riferisce Umberto nel suo libro “Dai monti al lago”, fonte inesauribile di spunti e conoscenza, molte parole dialettali sono così simili al corrispettivo italiano che il continuare ad usarle, storpiando l’originale, rende la parlata volgare e chi si trova ad utilizzarle figura come persona ignorante, poco colta, rischiando di fare una brutta figura.
Per questo molte parole sono state abbandonate e mentre in altre regioni si fanno vanto del loro dialetto, nella nostra si tende ad abbandonarle piano piano, a vantaggio della correttezza dell’italiano. Gli esempi  portati sono evidenti: mangià, come abbreviazione dialettale del verbo mangiare suona molto più brutto del romanesco “magnà”, ugualmente volgare ma con una maggiore tradizione alle spalle che lo rende più accettabile. Similmente la ‘nzuppa perde al confronto con la “sopa” veneta. Rifiutando così le elisioni e le stroncature, il raddoppio delle consonanti ed il dimezzo delle doppie, lo scambio del singolare con il  plurale, si viene a perdere una grande quantità di espressioni facenti parte, fino a pochi anni or sono, del parlare comune di tutti gli abitanti di queste zone.
Nei primi anni cinquanta, quando i bambini dei paesi di campagna, terminate le elementari  si dovevano necessariamente recare in città per frequentare le scuole medie, esisteva una notevole differenza di lingua parlata rispetto a quelli che abitavano in centro. La differenza poi scomparve rapidamente, di pari passo con i rapidi miglioramenti dei collegamenti logistici fra il centro e la periferia, ma in quegli anni chi veniva da Metato diceva “tera” e “caretto” normalmente, togliendo una doppia, ed era lingua parlata, viva, ma che a scuola significava un sicuro rimprovero da parte dell’insegnante, ed anche un brutto voto.
 er il caso in questione “una cesta di mela, “lavati le mano”, “mi fa male un piedi”, “l’ugna delle mano”, sono esempi di uso scorretto del singolare/plurale che però rappresentavano, fino a pochi anni or sono, il modo naturale di parlare della gente di campagna.
Un altro esempio di cambiamento del parlare di tutti i giorni viene dagli epiteti generici che vengono usati per rivolgersi a persone sconosciute in circostanze particolari, come per chiedere un’informazione o fare una domanda.
Fino a pochi anni or sono giovane, sposa, vell’omo, vell’omino e addirittura un confidenziale palle erano comunemente utilizzati in questa forma di approccio.
Oh giovane, mi sa dire…” e “giovane” andava bene per tutte le età, non si sbagliava mai.
Oggi si usa un più educato “scusi signora” che è perfetto dal punto di vista formale ma che perde molta della simpatia, del colore e calore del desueto “Oh sposa...”.
 
MELONE
Lett: MELONE. [Mellone, popone. Mela grande].
Forse per la forma simile, allungata e rotondeggiante, in dialetto si chiamava melone anche la mortadella.
Fammi ‘n panino cor melone, vai!” : fammi un panino con la mortadella.
 
META
Lett: META. [Per i Romani qualunque costruzione terminante a punta. Mucchio a forma di cono].
Si chiamava meta un grosso cumulo di fieno formato da più poste.
La posta era un cumulo di fieno a forma semisferica.
 
METTITUTTO
Lett: nc.
Era la credenza, il luogo dove si riponevano le pentole, le stoviglie e tutti gli arnesi da cucina.
Fece la sua comparsa negli anni quaranta e sostituì  la madia, mobile più rozzo e robusto, fatto di castagno o di altro legno resistente e pesante. Il mettitutto rappresentò la novità, la modernità e si diffuse rapidamente in tutte le case. Era un mobile più grande, dato che nelle case cominciarono ad arrivare anche nuovi attrezzi da cucina, e più leggero. Era costruito infatti con  compensato, un legno sottile a strati, leggero e resistente, con molti sportellini, alcuni con graziosi vetri scorrevoli che permettevano anche di mettere in mostra le prime porcellane. Era anche verniciato, a differenza delle madie che erano di legno compatto e grezzo, e rendeva la cucina più allegra e luminosa con quella nota di civetteria accentuata dai delicati colori pastello con cui di solito veniva dipinto.
Il nome, non rintracciato in italiano, deriva probabilmente dall’uso che dell’oggetto veniva fatto: i numerosi sportellini e cassetti lo rendevano adatto alla conservazione di tutto quello che poteva servire in cucina.

 

FOTO. Ristorante "da Ugo" a Migliarino, recentemente acquistato da imprenditori cinesi e diventato Ristorante Cinese di Pisa

 

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