Tornano, dopo la pausa estiva, i racconti storici di Franco Gabbani.
Un articolo, come per altri in precedenza, legato interamente alle vicende personali di una persona dell'epoca, una donna che ha vissuto intensamente una vita, ragionevolmente lunga, che potremmo definire di ribellione al ruolo che ai tempi si riconosceva alle donne, in aperta opposizione ai vincoli, alle scelte e al giudizio che la società di allora le riservava.
Il primo giorno di scuola quest’anno l’insegnante sentiva avanzare gli acciacchi dati dall’età non più verde. Era un po’ stanchino, perché la notte aveva dormito male e si era svegliato due o tre volte per un sogno strano. L’estate era alla fine ma faceva ancora molto caldo, l’aria era umida e minacciava pioggia. Stava andando a scuola in macchina e si era fermato al distributore per un pieno di gas. L’addetto al rifornimento, un signore con una tuta grigia e le gote rossicce, dopo aver fatto il suo lavoro, lo saluta così: “Ciao, nonno”.
L’insegnante sale sulla sua Panda, mette la prima, sgasa, gli martella in testa la parola nonno. Già la sentì garbatamente pronunciare da una nonnetta vera diversi anni fa quando andò a prendere sua figlia piccola a una scuola di danza: “È la sua nipotina?”. Sua figlia è cresciuta, ma niente nipoti, per ora. Allora comincia a rimuginare sullo stare a scuola alla sua età, perché un po’ gli brucia l’idea di tornare in classe a sessantacinque anni suonati. Arriva dopo una decina di minuti, prende un caffè al bar attorniato da ragazzini che forse salveranno il mondo. Entra in una prima media, anzi, in una prima classe della scuola secondaria di primo grado, c’è silenzio, guarda le faccine dei suoi alunni di undici anni, gli sembrano emoticon, per superare l’imbarazzo comincia a raccontare una fiaba che si intitola “Euro”.
C'è un paese dove tantissime persone non vanno a scuola, perché ce ne sono poche e brutte. In questo strano paese, per avere successo, bisogna comprare tutto. Però ci vogliono molti soldi e non tutti ce l’hanno. Poi ci sono due bambini, uno ricco e uno povero, che si innamorano della stessa bambina. Lei sceglie quello ricco, ma si dispiace per quello povero. Dieci anni dopo faranno un figlio e suo padre volle chiamarlo Euro, nome non molto stravagante per quei tempi. Presto però i due si separano. Euro rimane col padre, che si è trasferito in un altro paese molto lontano, e non vede più sua madre. Studia nei migliori collegi privati, parla solo inglese e dimentica la sua lingua di origine, si ricorda solo qualche parola. È infelice, perché non sa più chi è. Un’anima persa. Ma un giorno incontra sua madre…
Nel sogno l’insegnante non sa più come continuare questa fiaba, perché si accorge che è triste e poco adatta a dei ragazzini anche se sono solo faccine, quando dal fondo dell’aula spunta una mano in aria e la bocca della faccina dice: “Nonno, ancora”. Allora l’insegnante comincia a sudare, si rigira nel letto e si sveglia. Si guarda allo specchio, pensa: “Che catorcio!”. E si prepara per andare a scuola.
Si era svegliato alle sei di mattina, anche se entrava più tardi, per via del suo orologio interno e perché a letto sveglio non ci sapeva stare. Con questo sogno addosso raggiunge la vecchia scuola con in mente le più bizzarre elucubrazioni per la sua posizione di vecchio insegnante, il più vecchio della scuola, che rapidamente l’aria afosa e irrespirabile trasforma in un ritornello che rimanda a vincoli familiari e perfino al gruppo sanguigno: nonnità.
Saluta i colleghi e si intrattiene con un giovane amico in completo blu. Gli chiede meravigliato il perché di quell’abito da cerimonia, lui che veste sempre in jeans. “Hai letto l’articolo sul giornale? Se la scuola parte nel caos si dà la colpa agli insegnanti. Che c’entriamo noi con la confusione sull’organico dell’autonomia e del potenziamento? Ci danno tutti addosso, genitori in testa, allora è bene far vedere anche noi chi siamo, con la nostra dignità, fin dal primo giorno di scuola”, gli risponde. Pensò che, invecchiando, anche lui avrebbe dovuto curare di più l’abbigliamento, qualche maglietta bella freschina con la coroncina di alloro ricamata sul petto, sportiva e popolare tra gli alunni; qualche camicia di marca e una cravatta con brand emozionante di quelli che appena arrivi a scuola qualcuno ti dice: “Professore, che eleganza stamattina!”.
Scambia due chiacchiere con le bidelle, che ora si chiamano collaboratori scolastici, e in portineria si dà una sistematina ai capelli nel tentativo di togliere dal suo viso l’aspetto stanco di prima. Va nel chiostro grande della scuola, un monastero del XV secolo dove lui forse si troverebbe più a suo agio se ritornasse alla vecchia destinazione d’uso, saluta i suoi ragazzi di terza e scatta la foto di classe, come fa ogni anno. Poi va al bar per un caffè e gli arriva una vignetta su WhatsApp. Un bambino col grembiule blu che dice: “La scuola deve essere aperta, laica, gratuita e inclusiva”. Una donna, forse sua madre, mentre gli infila i bottoni nelle asole, gli risponde: “In aperta opposizione al mondo”. Butta giù il caffè, una sorsata amara, attraversa la piazza attorniato da ragazzini che dovrebbero salvare il mondo, prepara delle fotocopie e dei lavoretti per rendere meno noioso il rientro. Alle nove e quarantacinque si reca in Auditorium dove c’è l’accoglienza delle classi prime. La Preside, anzi no, il Dirigente Scolastico fa l’appello, quando il DS chiama la classe prima attribuita all’anziano docente, dopo aver stretto la mano a tutti i bambini, li indirizza verso di lui e dice gentilmente: “E ora seguite il carissimo professore che insegna in questa scuola da tanti anni”. Il vecchio insegnante le fa un sorrisino, ma non crede di aver saputo nascondere quella leggera tensione data dalla nonnità, accresciuta dal fatto che l’anzianità del servizio svolto è offuscata dalla valutazione del curriculum per competenze dell’insegnante.
I suoi quarant'anni di servizio, più la carriera da studente universitario, liceale, delle medie e delle elementari, perché ai suoi tempi la scuola si chiamava così, gli fanno pensare: “Una vita a scuola”. Alla scuola è affezionato e gli dispiace vederne il declino, ci ha passato tanti anni, ha tanti ricordi, e pensa che ne sente già la nostalgia quando, tra un anno o forse due, andrà in pensione, sentirà la mancanza del lavoro perché è vero quello che una volta sua figlia rispose alla maestra che le chiese che cosa facesse suo padre. E lei: “Fa la lezione tutti i giorni”.
Ha sempre fatto così il vecchio insegnante: ha sempre studiato e lo studio l’ha cambiato, perché lo studio cambia le persone. Ha sempre preparato le lezioni, e già lo avvertì la sua prima Preside a Morbegno, un paesino della Valtellina: “Professore, prepari le lezioni”. E poi il vecchio insegnante, quando non era ancora vecchio, faceva tanti bei corsi di aggiornamento, per esempio quelli del CIDI in Versilia e delI’IRSAAE a Firenze, che guardavano molto avanti per quei tempi. Ha sognato una bella riforma che però non è mai arrivata come la sognava lui, ha sperato in massicci investimenti nell’istruzione e nell’educazione, ha provato a cambiare il modo di fare scuola senza dire che le cose da studiare sono facili, ha provato a uscire dalla finzione pedagogica, a dare un senso alle cose che insegna, ha cercato di superare il nozionismo di uno studio recitato come un rosario mattutino e ha provato a far maturare l’abitudine a uno studio profondo e che richiede tempo, come i suoi vecchi professori gli avevano insegnato. Non ha mandato a quel paese i genitori che chiedevano di non dare i compiti per le vacanze perché, dicevano, i ragazzi avevano bisogno di svagarsi e divertirsi, non lo aveva fatto non solo per educazione, ma soprattutto perché pensava che non si dovesse mai rinunciare per tutta la vita a un giusto tempo di studio e a un po’ di divertimento. Ha avvertito il bisogno di una scuola in cui gli studenti potessero stare bene e con ambienti di apprendimento stimolanti. Ha pulito, sistemato e imbiancato aule e ha cercato di creare spazi a misura dei ragazzi, che hanno sempre la stessa età ma non sono più gli stessi e uno come lui, che invece sente il tempo stanco e vecchio sulle sue spalle, è distante anni luce dal loro mondo. Anzi, spesso è lui che impara qualcosa da loro, per fortuna.
Il turbato ma non ancora rimbecillito professore, mentre riflette sulla sua nonnità innata, si avvicina all’aula augurandosi di farcela anche quest’anno scolastico. È felice di rivedere i suoi studenti del terzo anno cresciuti di colpo dopo solo tre mesi. Entra nell’aula silenziosa, gusta l’odore di umanità e la bellezza dei ragazzini venuti da molte parti del mondo, non sa bene come cominciare. Silenzio. I ragazzini applaudono. Anche lui, nonostante tutto, applaude. Bene. Si ricomincia. Qui. Ora.