Con questo articolo termina la seconda serie di interventi di Franco Gabbani, attraverso i quali sono state esaminate e rivitalizzate storie e vicende del nostro territorio lungo tutto il secolo del 1800, spaziando tra fine '700 e inizi del '900 su accadimenti storici e vite di personaggi, che hanno inciso fortemente oppure sono state semplici testimonianze del vivere civile di quei tempi.
E’ dovere di noi dirigenti del Partito Democratico raccontare la verità ai sostenitori del partito
Le ultime vicende che hanno caratterizzato la storia recentissima del Partito Democratico, in special modo i fatti che hanno portato alcuni importanti quadri e dirigenti nazionali a lasciare il partito, hanno costituito, dal punto di vista mediatico, un enorme affare fatto di servizi giornalistici e non stop a ripetizione continua (il buon Mentana ringrazia la ditta) e, dal punto di vista della base, una iattura, qualcosa di apparentemente impossibile e invece, contro ogni peggiore ipotesi, assai concreta.
Non importa il dato numerico delle perdite che deriveranno dall’addio dei dirigenti che in altri tempi hanno fatto furore dentro e fuori il partito. Ciò che conta, al di là di ogni superficiale calcolo algebrico, è senza dubbio la sensazione di impotenza e smarrimento rispetto ad una frattura grave, la prima vera mai accaduta nel Partito Democratico da quando esso è stato fondato. La base, secondo i sondaggi, non ha apprezzato. A prescindere dalle colpe, dalle responsabilità e dalle volontà politiche di chi ha assunto la drastica decisione di abbandonare il più grande partito progressista europeo per approdare ad un nuovo soggetto di sinistra.
Bene hanno fatto Gianni Pittella e Teresa Bellanova durante l’assemblea di domenica scorsa, a precisare che nessuno, men che meno gli “scissionisti”, possono vantare di tenere in mano il copyright della sinistra, nella migliore accezione del termine inteso come collocazione di questa o quell’altra azione politica nel panorama ideologico attuale. Anche perché, se dobbiamo dirla tutta e solo per fare qualche esempio, è proprio durante la segreteria di Matteo Renzi che il PD ha aderito al PSE (è stato il suo primo atto da segretario dopo almeno cinque anni di sterile e infinito dibattito interno al partito). Per non parlare del sostegno dei parlamentari del PD alle politiche promosse dal governo guidato da Renzi in tema di diritti.
Argomenti come le unioni civili, a suo tempo oggetto di elucubrazioni infinite, proposte mai portate a compimento (ricordate i famosi PACS e i DICO?), sono entrati di diritto del vocabolario degli italiani e soprattutto nel nostro ordinamento. O le norme tese a favorire chi è affetto da disabilità (il Dopo di Noi vi ricorda qualcosa?). E come non parlare del jobs act, che ha creato più di seicentomila posti di lavoro veri nonostante la congiuntura negativa della recessione che tutti abbiamo subito.
Prima si discuteva solo di diritti dei lavoratori senza mai adottare misure vere per incrementare l’occupazione che oggi le statistiche più accreditate danno in crescita, sebbene in misura minore rispetto ad altre importanti realtà europee dove la crescita risulta sicuramente più evidente. O come non fare riferimento al tentativo riuscito del Governo di soluzione definitiva dello storico problema del precariato in ambito scolastico? E della recente notizia secondo cui nel 2016 si è verificato il record di 19 miliardi di euro recuperati dall’evasione fiscale, vogliamo parlarne? Alla luce di tutto ciò, ogni ragionamento volto a giustificare la scissione a causa di presunti motivi ideologici rispetto alla condotta del partito e del governo, appare non supportato da tesi fondate.
Dunque, al netto delle questioni ideologiche, come detto infondate almeno per quanto riguarda il mio modestissimo parere, bisogna conoscere i fatti e i retroscena per renderci conto del perché autorevolissimi esponenti del partito abbiano deciso di abbandonare la nave.
Io non credo che sia stato fatto tutto il possibile per impedire la scissione. O almeno questo tentativo non è stato fatto da tutti. Perché ritengo che quando si è separati in casa e la coppia deve riconciliarsi, è necessaria la volontà comune di addivenire ad un accordo “sentimentale”. Bene, è mancata la volontà e il sentimento. La buona volontà, nel contesto politico, in una trattativa può manifestarsi in proposte “accettabili”, dove tutte le parti ci perdono e dove nessuna di esse rimanga soccombente rispetto all’altra.
Se le proposte non sono sostenibili, evidentemente il tentativo non è finalizzato alla riconciliazione, come si vorrebbe far credere, ma alla separazione.Un esempio di mediazione inaccettabile è quella legata alle liste bloccate. Da fonti più che accreditate risulta che la minoranza del partito avrebbe chiesto a Renzi il cinquanta per cento dei seggi bloccati alla camera, a prescindere dall’esito del congresso. Proposta che nemmeno il più mite dei politici avrebbe mai accettato, non tanto per mere questioni di equilibri numerici ma perché ritengo pacifico che il potere politico, tradotto in rappresentanza negli organismi istituzionali dello stato, va a mio avviso applicato sulla base della valenza politica e numerica che solo la platea congressuale e gli elettori delle primarie potranno determinare.
Oppure la richiesta legittima di consentire adeguati “spazi di contendibilità”, tradotto in altri termini, tempo adeguato per consentire a tutti i concorrenti di fare conoscere le proprie tesi alla platea congressuale. A parte il fatto che reputo esagerato e anacronistico discutere per sei mesi di fila di tesi congressuali, mi vengono in mente le primarie del 2012 per l’individuazione del leader della coalizione di centro sinistra, dove i maggiorenti del PD imposero settanta giorni scarsi agli sfidanti di Bersani, tra cui Renzi, ai tempi sindaco di Firenze. Com’è possibile che gli spazi di contendibilità risultano angusti adesso e adeguati nel 2012? E delle regole vogliamo parlarne? Ricordo bene due fatti che hanno riguardato moltissimi aspiranti elettori proprio alle primarie del 2012. Anzitutto la possibilità di votare al ballottaggio, se astenuti al primo turno, se non dopo avere esibito adeguato materiale giustificativo.
Migliaia di elettori non poterono esercitare il loro diritto di scegliere il nuovo leader del centro sinistra perché, ad esempio, non erano provvisti di certificato medico che spiegasse la causa di indisponibilità del paziente al primo turno o della copia del biglietto aereo che dimostrasse la reale impossibilità di espressione di voto per un viaggio. L’altro fatto riguarda i Giovani Democratici che in quell’occasione non furono ammessi al voto. Non solo non furono garantiti adeguati spazi di contendibilità, ma tanta gente è stata volutamente tenuta lontana dalle urne per evitare possibili “scalate” indesiderate.
Orbene, sono convinto del fatto che è dovere di noi dirigenti del Partito Democratico raccontare la verità ai sostenitori del partito. Probabilmente ciò non tornerà utile ad alleviare la rabbia della base per quanto accaduto, ma consentirà ad essi di potere giudicare i fatti con contezza della realtà.E la verità, o almeno quasi tutta, afferisce ad un elemento di debolezza di una parte dell’opposizione interna, che ha preferito rinunciare a scendere in campo e giocare la partita. Per la verità, in occasione della campagna referendaria per la riforma costituzionale, D’Alema e Bersani avevano provato ad approfittare del vento favorevole ai sostenitori del no tentando invano di intestarsi l’eventuale vittoria.
Naturalmente, mostri sacri della comunicazione e maggiorenti di altri partiti e movimenti, Grillo in primis, non hanno concesso il benché minimo dividendo politico ai due ex leader del PD. A tal proposito è bene sottolineare che la scissione, o almeno il prologo di essa, risale proprio al 4 dicembre scorso quando alcuni dei dissidenti hanno brindato per il risultato che credevano di potere conservare in bacheca. E la scelta di sostenere il no al referendum non era determinata da legittime opinioni legate al quesito referendario ma dal tentativo di approntare la prima fase dell’assalto alla diligenza che sarebbe stata ultimata con il congresso.
Quest’altro ragionamento è dimostrato da un fatto apparentemente inspiegabile: Bersani riguardo al referendum aveva cambiato idea diverse volte durante la campagna referendaria. Inizialmente aveva giudicato la riforma come utile agli italiani, tanto da averla votata in parlamento. Improvvisamente paventava il rischio di deriva autoritaria. E non credo che Bersani non sia abbastanza capace da proporre un giudizio serio riguardo ad un tentativo di ammodernamento della costituzione.
L’assalto è fallito. Ma la verità è tutto ed è elemento imprescindibile per un giudizio serio. Non tanto per identificare i responsabili di questa sciagura ma per far sì che i nostri elettori, tesserati o semplici simpatizzanti, non vengano presi in giro e conoscano il reale andamento dei fatti. E allora i dirigenti che hanno deciso di percorrere una via alternativa, che continuo a stimare e che ho sostenuto in tempi non sospetti, raccontino le vicende per come sono andate veramente. Serve a tutti ma soprattutto a loro.