Con questo articolo termina la seconda serie di interventi di Franco Gabbani, attraverso i quali sono state esaminate e rivitalizzate storie e vicende del nostro territorio lungo tutto il secolo del 1800, spaziando tra fine '700 e inizi del '900 su accadimenti storici e vite di personaggi, che hanno inciso fortemente oppure sono state semplici testimonianze del vivere civile di quei tempi.
“Ci fu una trattativa parallela D’Alema-Berlusconi per il Quirinale”
I giorni cruciali delle elezioni di Sergio Mattarella al Quirinale
Mattarella è alla sua prima crisi di governo, dopo due anni di mandato. La sua elezione ha costituito un punto di svolta importante nella vita della legislatura: il parlamento nel 2013 si era dimostrato incapace di trovare una soluzione alla scadenza del settennato e tale inconcludenza della politica aveva costretto Giorgio Napolitano ad accettare un secondo mandato, caso inedito nella storia repubblicana. La gestione parlamentare dell’elezione di Mattarella invece ha mostrato una novità rispetto all’epoca dei franchi tiratori, e il largo consenso da lui raccolto – in aula e nel paese – ha oggettivamente rafforzato la credibilità delle istituzioni. Scegliere Sergio Mattarella per il Quirinale ha provocato però una rottura con Berlusconi e i suoi.
Tutto il pacchetto delle riforme era nato da un accordo istituzionale con Forza Italia, che si era impegnata a superare il Senato, impostare una legge elettorale sul modello di quella dei sindaci, ridurre il potere delle Regioni: in un incontro nella sede del Pd, in largo del Nazareno, avevamo concordato questo percorso, poi ribadito in quattro incontri successivi a Palazzo Chigi. Incontri piacevoli, mai polemici, sempre molto chiari e alla luce del sole: abbiamo idee diverse sulla politica, ma si lavora insieme per il cambio delle regole. Scrivere le regole insieme per me è un dovere civile e morale. Non è un caso se la riforma della legge elettorale denominata Italicum e la riforma costituzionale poi bocciata al referendum hanno visto il pieno apporto di Forza Italia alla redazione del testo e nelle prime votazioni parlamentari. Noi abbiamo sempre cercato di scrivere le regole insieme agli altri.
Ci siamo sottoposti a snervanti riunioni pubbliche con i grillini – che con noi facevano lo spettacolino in streaming e poi andavano a decidere a porte chiuse nella sede della Casaleggio & Associati Srl – per coinvolgere anche loro.
Siamo rimasti fedeli a questo metodo anche quando – fallito il referendum – il Presidente della Repubblica ha chiesto a tutte le forze politiche uno sforzo di dialogo e di confronto. Scrivere le regole insieme agli altri impone flessibilità e capacità di ascolto. Non puoi fare come ti pare, mai. E questa regola, che abbiamo sempre seguito, continuiamo a ritenerla più vera e necessaria che mai. Non siamo stati noi a tirarci indietro dalle riforme che avevamo scritto insieme all’altra parte politica. E, allo stesso modo, in questo scorcio finale di legislatura, non faremo leggi elettorali a maggioranza contro Berlusconi o contro Grillo.
Dopo la sconfitta del 4 dicembre, alcuni opinionisti mi hanno rinfacciato la rottura del Patto del Nazareno, commentando che, se solo fosse rimasto integro l’accordo istituzionale, il referendum avrebbe avuto un’altra storia.
Ci rimugino mentre salgo per l’ultima volta al Colle. La verità mi appare allora molto più forte di ogni considerazione ex post: chi ha partecipato a quei tavoli sa perfettamente che è stata Forza Italia a rompere con noi.
Quando, a fine gennaio del 2015, si tratta di votare per il Quirinale, Berlusconi mi chiede un incontro, che resterà, ma io non posso ancora immaginarlo, l’ultimo per anni. Perché quando si siede – accompagnato da Gianni Letta e Denis Verdini – mi comunica di aver già concordato il nome del nuovo presidente con la minoranza del Pd.
Mi spiega infatti di aver ricevuto una telefonata da Massimo D’Alema, di aver parlato a lungo con lui e che io adesso non devo preoccuparmi di niente, perché “la minoranza del Pd sta con noi, te lo garantisco”. Te lo garantisco? Lo stupore colora – o meglio sbianca – il volto di tutti i presenti. Berlusconi ha sempre un modo simpatico di raccontare la realtà.
La sua ricostruzione della telefonata con D’Alema è divertente, ma lascia tutti i partecipanti al tavolo senza parole. Non solo non avevamo mai inserito l’elezione del capo dello stato nel Patto del Nazareno, ma l’idea che Berlusconi abbia già fatto una trattativa parallela con la minoranza del mio partito sorprende anche i suoi. In quel momento – sono più o meno le due di pomeriggio del 20 gennaio –, nel salotto del terzo piano di Palazzo Chigi, capisco che il Patto del Nazareno non esiste più: il reciproco affidamento si è rotto.
Non è un problema di nomi: la personalità su cui Berlusconi e D’Alema si sono accordati telefonicamente è di indubbio valore e qualità. Ma è anche difficile da far accettare ai gruppi parlamentari – sempre pronti a esercitare l’arte del franco tiratore – e all’opinione pubblica. E poi c’è un fatto di metodo, prima ancora che di merito. Io ho scelto un percorso trasparente e partecipato, con tanto di streaming, dentro il Pd e davanti al paese per evitare di tornare allo stallo del 2013. Sono impegnato in un iter parlamentare difficilissimo per condurre una maggioranza su un nome condiviso. E in una sala ovattata al terzo piano di Palazzo Chigi devo scoprire che si è già chiuso un accordo tra Berlusconi e D’Alema, prendere o lasciare?
E, come se non bastasse, da questo prendere o lasciare dipende la scelta se continuare o meno con il percorso di riforme, che pure erano state scritte insieme.Non ho mai capito perché Berlusconi nutrisse dubbi su Mattarella. Le sue qualità parlavano per lui: professore di diritto; giudice costituzionale serio e rispettato; ministro per i Rapporti con il parlamento, della Pubblica istruzione, della Difesa; uomo di rigore e legalità nella Dc siciliana e nazionale; parlamentare di comprovata esperienza. Forse la ruggine per le dimissioni di Mattarella dal governo Andreotti venticinque anni prima contro la legge voluta da Craxi sulle tv, la famosa legge Mammì, ostacolava ancora il Cavaliere.
Fatto sta che, quando mi trovo a dover scegliere tra l’asse Berlusconi-D’Alema (non ricordo un solo accordo Berlusconi-D’Alema che alla fine sia stato utile per il paese) e la soluzione più logica per il parlamento e per l’Italia, non ho dubbi, con buona pace di tutti i retroscenisti. Del resto, come canterà Vasco Rossi qualche mese dopo: “Essere liberi costa soltanto qualche rimpianto”. Da quel momento Berlusconi mi dichiara guerra, vanificando l’approccio condiviso alle riforme che fino ad allora era stato strettissimo.
Già, perché le riforme istituzionali le abbiamo votate insieme, specie nelle prime letture, e molti dei campioni della campagna per il No al referendum in realtà avevano votato Sì in parlamento. Questo dovrebbe far riflettere a lungo sulla natura politica del voto referendario.
Il mio rapporto con il Cavaliere è peculiare. Sono tra i pochi della sinistra che non ha mai voluto fargli la guerra sulle sue vicende giudiziarie. Ho sempre spronato i miei compagni di partito a portare avanti una proposta per l’Italia, non contro Berlusconi. Quando era premier ho fatto di tutto, nella mia veste di sindaco, per lavorarci insieme a livello istituzionale. Dopo lo strappo sull’elezione del presidente della Repubblica, i nostri rapporti si interrompono.
Quando però, nel giugno del 2016, Berlusconi si sente male e viene ricoverato, lo chiamo per sincerarmi delle sue condizioni di salute. E, come sempre, il Cavaliere è simpatico e gentilissimo: “Caro Matteo, grazie per avermi chiamato, non dovevi disturbarti, sto bene”. Sono i giorni successivi al primo turno delle amministrative di Roma. Intervenendo a Ostia alla chiusura della campagna elettorale per Marchini, sfidante di Virginia Raggi e Roberto Giachetti, Berlusconi non aveva esitato a chiedere un voto per evitare di sfociare nella pericolosa “dittatura” del sottoscritto, parlando di “regime”, di “democrazia sospesa”, del “signor Renzi che occupa militarmente ovunque qualsiasi cosa”, di “bulimia smisurata di potere”. Un intervento pacato e sobrio, insomma. Durante la telefonata io ovviamente evito di parlare della mia “deriva autoritaria” e rimango sul piano strettamente personale, augurandogli pronta guarigione.
Il finale di Berlusconi è un vero colpo da maestro, Ko tecnico alla prima ripresa: “E poi, caro Matteo, sappi che mi dispiace molto per quanto ti stanno attaccando, ce l’hanno tutti con te”. Ma come? Lo stesso che pubblicamente mi dà dell’aspirante dittatore a distanza di due giorni mi porta la sua solidarietà per gli attacchi? Mentre pigio il tasto rosso che mette fine alla telefonata, scoppio in una risata: è inutile, anche se mi sforzassi, Berlusconi non mi starà mai antipatico.
Sul Quirinale però non potevo consentire né a lui né a D’Alema di sostituirsi al parlamento e decidere per tutti. La simpatia è una cosa, la politica è un’altra.*
*Tratto dal nuovo libro di Matteo Renzi in libreria da domani 12/7/17