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L'articolo di oggi non poteva non far riferimento alla festa del SS. Crocifisso che Pontasserchio si appresta a celebrare, il 28 aprile.Da quella ricorrenza è nata la Fiera del 28, che poi da diversi anni si è trasformata in Agrifiera, pronta ad essere inaugurata il 19 aprile per aprire i battenti sabato 20.La vicenda che viene narrata, con il riferimento al miracolo del SS. Crocifisso, riguarda la diatriba sorta tra parroci per il possesso di una campana alla fine del '700, originata dalla "dismissione" delle due vecchie chiese di Vecchializia. 

. . . anche sommando Pd, 5Stelle, Azione, Iv, Avs .....
In Basilicata se il centro sinistra avesse optato per .....
. . . presto presto. Io ho capito che arrampicarsi .....
I democristiani veri e finti che si vorrebbero definire .....
per pubblicare scrivere a: spaziodonnarubr@gmail.com
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Di Gavia
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di Michelle Rose Reardon a cura di Giampiero Mazzini
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di Mollica's
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Di Siciliainprogress
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Colori u n altra rosa
Una altra primavera
Per ringraziarti amore
Compagna di una vita
Un fiore dal Cielo

Aspetto ogni sera
I l tuo ritorno a casa
Per .....
Oggi è venuto a mancare all’affetto di tutti coloro che lo conoscevano Renato Moncini, disegnatore della Nasa , pittore e artista per passione. .....
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I BOSCAIOLI
anzi, gli “scotitori” e gli altri

17/4/2018 - 21:11


Per decenni i pini della Macchia Lucchese e di quella dei Salviati, venivano scalati da uomini, che definirei con un termine moderno, “uomini ragno”; tanto era la loro abilità e agilità nel salire sulle piante di pine alte oltre 25 metri. I loro strumenti erano, una scala lunga e stretta, un’asta provvista di un gancio a falce di ferro e dei rampini. Le aste erano attrezzi costruiti con cura e attenzione da ciascun addetto, ma talmente esili che sembravano rompersi da un momento all’altro. Lo scotitore, appoggiata la scala al pino, cominciava la sua salita e arrivato in cima, proseguiva con la sola asta, con la quale, una volta agganciata al primo ramo, si tirava su, completamente sospeso in aria e, bracciata dopo bracciata, raggiungeva il ramo da cui cominciare a scuotere le pigne una ad una. Vi era anche un altro strumento usato per salire quando non era possibile agganciare uno dei rami più bassi: era l’asta con un gancio a forma di becco di uccello, chiamato gancio a picchio. Non si agganciava al ramo, ma veniva spinto verso il fusto del pino perché vi si conficcasse.
Gli scotitori non amavano questo armese, perché non era sicuro, dato che il fusto del pino è di scorza che non offre abbastanza sicurezza per sorreggere una persona in movimento.
Il lavoro cominciava a metà autunno e continuava per tutto l’inverno, con condizioni climatiche difficili per il freddo e le brinate del mattino. Data la grande estensione della superficie pinetata poteva prolungarsi anche in primavera, specialmente se l’annata era buona e se non vi erano state libecciateo bufere.
Si formavano più squadre, tutte collegate fra di loro. Si accordavano per intervenire in luoghi diversi, suddividendo l’area d’intervento in quadrati, partendo da est e spingendosi a ovest verso il mare. Agli uomini volanti si univano anche squadre atte a raccogliere le pine. Per lo più erano formate da donne, ma non mancavano gli uomini, quelli che non volevano, per timore, usare le aste e le scale. I frutti raccolti venivano caricati su dei motocarri che venivano mandati sulla pesa e poi consegnati alla ditta interessata alla lavorazione e alla produzione dei pinoli.
 Durante la 2° guerra mondiale, negli anni 1942-1943-1944, come tanti altri, ero solito andare in pineta a fare la legna. Molti Torrelaghesi passavano il confine che era quello della Bufalina per raccogliere la ramaglia secca che si staccava dalle piante. Il freddo spingeva anche i ragazzi a seguire gli adulti, per raccogliere materiale per il camino. Potevamo prendere i rami più piccoli e lasciare quelli più grossi.. Grande era il mio stupore e la mia ammirazione nel vedere quegli uomini agili come scoiattoli e sicuri nei movimenti che maneggiavano veloci l’asta per staccare i frutti.
Liberato un pino dalle pigne, alcuni senza scendere, con un urlo d'avviso, passavano al ramo di un albero vicino. A vederli venivano i brividi a tutti: le donne, soprattutto le mogli e i familiari urlavano implorandoli di scendere, ricordando che alcuni erano gia caduti, lasciandoci la pelle. Ricordo anche che a mezzogiorno, tutti scendevano a terra e si mettevano seduti a circolo intorno ad un fuoco, ormai divenuto una montagna di brace, preparato dalle donne. In gran silenzio e veramente stanchi tutti facevano la pausa pranzo: Fette di polenta arrostite sul fuoco e salcicce o mezzina, infilate su uno stecco di pino tenuto sopra al fuoco perché facesse gocciolare, prima che cadesse, il grasso sopra la polenta.
Questi momenti rappresentavano quasi un rito: si stava insieme per rifocillarsi, per scaldarsi e per godersi il meritato riposo. Dopo il pranzo, e dopo aver bevuto un bicchiere di vino, non tutti risalivano sui pini, mentre chi lo faceva, ne risaliva uno o due e poi a casa.
Era consuetudine degli scotitori, ripulire i pini dai rami secchi, di ostacolo al libero movimento sulla pianta. I rami, una volta tagliati, a terra venivano raccolti in fasci, che venivano portati a casa legati sulla bicicletta. Niente veniva fatto per caso.
Credo sia opportuno fare anche i nomi di questi coraggiosi lavoratori, riportando per alcuni i nomicchioli:
Genovali Leo forse il più famoso capo gruppo, che ha lavorato sia nella pineta dei Salviati, sia nella Macchia Lucchese; poi Genovali Lino (Nasello), Bertolani Lionello, Bertolani Arnaldo, Bertolani Raffaello, Bertolani Gastone, Lombardi Raffaello (Norge), Lombardi Giuseppe, Lombardi Pietro (Milone), Picchi Arnaldo (La Pelosa), Paolini Antonio (il Gobbo della Ciarea), Cordoni Adolfo (Bocchino), Benedetti Creonte, Tofanelli Antonio, Del Pistoia Barberino, Benedetti Fulvio, Ceragioli Giancarlo (La Folaga), Diridoni Rigoletto, Dini Pilade, Dini Lorenzo, Gemignani Giuseppe, Gemignani Sabatino, Beconi Arduino, Panconi Enzo (Panchino), Vatteroni Carlo, Vatteroni Luciano (Luccio), Tofanelli Renzo (Baina), Fambrini Renato (Califfo), Lombardi Giuseppe (Palleri).
Forse ho dimenticato qualche nome. Sicuramente altre persone hanno fatto questo lavoro, magari sporadicamente, senza la continuità di quelle che ho sopra citato.
I gruppi ben affiatati degli scotitori venivano ingaggiati ora dai Salviati, ora dalla ditta Guidotti, ora dalla ditta Grassini. Le pine raccolte venivano vendute a queste ditte e pagate per tonnellata.
Il tipo di lavoro, era simile a quello a cottimo, in quanto più scuotevano, più guadagnavano.
La “scotitura” era l’inizio della produzione del pinolo la cui lavorazione costituiva una vera industria gestita da altri.
C’erano anche fra i boscaioli, i potatori di piante di alto fusto e i tagliatori di pini. Per lo più essi erano dipendenti della tenuta dei Salviati e del Comune di Viareggio e accudivano alle piante, potandole per farle crescere e poter vendere la  legna a “some'’ o a metri. Eseguivano anche i tagli a raso di tratti di bosco e curavano la semina delle nuove piante (pini, querce, lecci, ontani ecce. ecc.) Dei pini abbattuti non veniva buttato via niente, perché con i rami più piccoli si facevano i fascetti, riuniti in some e con i rami più grossi si facevano i metri.
A tutto ciò si aggiungeva un’altra attività, quella della raccolta della scorza. Sempre i boscaioli con le accette, squartavano il fusto, lasciando a terra la corteccia, che più tardi veniva raccolta dalle donne e riunita in sacchi. Questi, poi, venivano portati al mulino, dal Cordoni Damerino, per fare lo “zappino”.
Con la macina della scorza di pino, si otteneva una specie di crusca di polvere granulosa di un colore rossastro, appunto chiamata zappino che serviva "per tannare” le reti, che allora erano di corda.
In questo modo le reti venivano colorate e anche rese più forti, perché resistessero più a lungo alla corrosione dell’acqua di mare.
Tutto il ciclo di lavoro, coinvolgeva gente umile, che si doveva accontentare di piccoli compensi. Spesso vi partecipavano interi nuclei familiari. Grazie a loro l'attività ebbe un buon sviluppo e alla prima macina se ne aggiunse una seconda e fu gestita da Prato Ido, perché il prodotto era richiesto tanto che veniva smerciato lungo le coste italiane e le isole e persino spedito, a mezzo ferrovia, in Dalmazia.
Lo zappino veniva messo nei ballini di carta vuotati del cemento. Nelle ditte edili gli addetti ai lavori si preoccupavano di aprirli con attenzione, proprio per poterli riutilizzare.
Riempiti con Io zappino, legati alla meglio con una cordicella, venivano portati alla pesa e pesati uno ad uno, dal titolare del mulino che vi incollava un cartellino con il peso esatto. I sacchi, caricati sui carri venivano portati alla stazione ferroviaria di Torre del Lago per la spedizione. Era richiesto che vi fosse scritto in modo chiaro che si trattava di scorza di pino macinata non utilizzabile per tinta o per concia. Legata alla vita dei boschi era anche l'attività di barrocciaio. Le persone più conosciute che facevano questo lavoro con esperienza, capacità e organizzazione, erano Leone (il più organizzato ed attivo), PaImerini Arduino, Bombolino (Martinelli Rolando, fratello del Berlenghi e zio di Pallette), Orlandi Mosè, Alluso (Adericchio).
Il loro lavoro consisteva nel trasportare fuori dalla pineta e spesso dalle “lame” i tronchi di pino, di lunghezza media di 15/20 metri. Con la sola forza dell’uomo e del cavallo da tiro e con funi di canapa e con catene si faceva strisciare il tronco fuori dall’acqua per poi imbracarlo e sollevarlo.
Veniva usato per questa ultima operazione il carro matto, un carro che grazie ad un timone che faceva da leva trasportava grossi tronchi, in special modo i tronchi di pino, lunghi fino a venti metri.
Con l’ausilio dello stesso cavallo, il tronco veniva alzato e posizionato sotto la sua “pancia” cioè fra le ruote sotto l’asse. Bastava alzarlo una trentina di centimetri e metterlo in posizione bilanciata, perché venisse poi attaccato al barroccio o direttamente al giogo di una coppia di buoi. In molte zone venivano usate più coppie di buoi, uniti da un giogo. Il buon Leone riusciva a caricare sul carro matto fino a tre lunghi tronchi, grazie alla sua esperienza e bravura. Ma c’erano anche i Martinelli del Cancello che avevano il carromatto .
Nella pineta dei Salviati c’era una grossa pesa, gestita dalla famiglia Nanni, che pesava il tronco o i tronchi, in modo che chi li aveva acquistati, pagasse il dovuto. I tronchi, poi, venivano portati alla stazione ferroviaria, dove a mezzo di una grossa gru fissa e azionata a mano, venivano caricati sugli speciali carri ferroviari e spediti in varie citta della costa toscana.  Quelli  più corti e più piccoli di circonferenza, venivano smistati alle segherie di Torre del Lago: quella del Lami, quella di Veiss, e quella di Angino al Borgo...,
Queste segherie, tagliavano il legno producendo gabbiette di varie grandezze da utilizzare in agricoltura per raccogliere e smerciare la verdura di stagione e anche dei piccoli cilindri come primo abbozzo per i rocchetti usati dall’industria dei filati. Altri tronchi andavano mei cantieri navali di Viareggio e di Limite sull’Arno; altri a Pietrasanta per l’imballaggio del marmo e dei suoi derivati. La segheria del Lami era quella più organizzata; riusciva a squadrare i tronchi ricavando dei grossi e lunghi travi, che venivano richiesti da varie ditte di carpenteria navale e per costruire fondamenta di abitazioni.
Come ultimo utilizzo del legno si recuperavano gli scarti, che venivano venduti alle famiglie per il camino di casa.

 

Pensiamo un po’ oggi a quante attività la pineta sviluppava e a quanto lavoro essa produceva per la gente!
 

 

Fonte: Carlo Alberto Ferrari: Gente del “confino” Uomini e donne del mio paese, ed. Pezzini 2011
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