Nei giorni 26-27-28 aprile verranno presentati manufatti in seta dipinta: Kimoni, stole e opere pittoriche tutte legate a temi pucciniani , alcune già esposte alla Fondazione Puccini Festival.Lo storico Caffè di Simo, un luogo iconico nel cuore di Lucca in via Fillungo riapre, per tre mesi, dopo una decennale chiusura, nel fine settimana per ospitare eventi, conferenze, incontri per il Centenario di Puccini.
Due settimane fa abbiamo preso in considerazione, attraverso alcuni aspetti letterari della Divina Commedia, storici e geografici, quello che viene chiamato il Passo di Dante.
Sul discorso storico si è detto che ovviamente era un'altra storia. Però credo sia importante, per chi è interessato, saperne di più rispetto a quanto, in maniera spesso superficiale, viene raccontato dal nozionismo scolastico.
Per far ciò, ho coinvolto Stefano Benedetti, profondo conoscitore della storia del territorio e delle opere di Dante, ma anche in grado di farci capire quelli che furono i retroscena (oggi si direbbe il backstage) delle vicende dell'epoca e anche dei pensieri e sentimenti che Dante probabilmente aveva nello scrivere le sue celebrate terzine.
Un modo per sentire più vicino e capire l'uomo, oltre che l'autore del più grande capolavoro letterario. E un modo per conoscere meglio gli eventi di secoli fa.
Per provare a dare un'immagine in grado di rappresentare quanto Dante descrive, al di là delle canoniche illustrazioni della Divina Commedia, c'è il dipinto, datato 1817, di Giuseppe Diotti da Cremona, pittore neoclassico.
Una faccia fissa immobile del Conte che rende la sofferenza impotente e disperata, tutta interna. A contrasto con i figli dilaniati dalla morte che invece lottano con il corpo.
Ed ecco quanto ci racconta Stefano su Dante, Ugolino e il Monte Pisano:
A Pisa, in Piazza dei Cavalieri, proprio a fianco della Scuola Normale, c’è il Palazzo dell'Orologio.
A sinistra dell’arco sottostante, c’è una parete di mattoni grezzi e una lapide che ricorda che proprio lì, un tempo, sorgeva la Torre della Muda, per un tristo evento poi denominata Torre della Fame.
La Torre, appunto, associata al Conte Ugolino della Gherardesca, il più famoso cannibale di tutti i tempi.
Anche se poi veramente cannibale non fu.
Tutta colpa di Dante Alighieri!
Dante, gli tira un bello scherzetto al nostro pisano, (Dante non ci amava troppo, non dimentichiamoci la sua famosa immortale invettiva contro la nostra città), facendolo passare alla storia, a torto, come il divoratore dei propri figli.
“La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a' capelli
del capo ch'elli avea di retro guasto.”
Dopo la Terzina iniziale della Commedia, quella del "mezzo del cammin di nostra vita", quest’altra terzina è certamente la più conosciuta a livello popolare e la più declamata in assoluto da sempre.
Siamo nel XXXIII dell'Inferno, dove immersi nella "ghiaccia" del Cocito, stanno i traditori della Patria e qui il nostro Conte entra in scena ed inizia a raccontare la sua storia, sospendendo per un attimo il fatto che stava addentando la nuca dell'Arcivescovo Ruggeri, suo nemico in città e figura altrettanto famosa del tempo.
Il Conte non ci racconta affatto però delle sue peripezie politiche in quel di Toscana, anzi ne è totalmente disinteressato, ma ci narra i suoi ultimi giorni di vita, rinchiuso con i suoi quattro figli (che poi erano due figli e due nipoti) nella torre della Fame, dove fu segregato, murate le porte, gettate le chiavi in Arno e lasciato morir di inedia insieme a loro.
“Quando fui desto innanzi la dimane,
pianger senti' fra 'l sonno i miei figliuoli
ch'eran con meco, e dimandar del pane”
La fame arriva e arriva anche il terrore assoluto, la certezza che quella porta non sarà più aperta e la morte diventa in lui una realtà spaventosa ma lenta, lentissima a sopraggiungere e il Conte a questo punto fa un gesto di disperazione che i figli male interpretano:
“ambo le man per lo dolor mi morsi”
E i figli, ancora rispettosi del padre, pensato che avesse fame, con parole estreme lo invitano a cibarsi dei loro corpi e dissero:
"Padre, assai ci fia men doglia
se tu mangi di noi: tu ne vestisti
queste misere carni, e tu le spoglia"
Nei giorni seguenti poi morirono ad uno ad uno e a questo punto il Sommo Poeta piazza la stoccata finale, il coup de théâtre contro il Conte, e inserisce un endecasillabo eloquente e mirabolante quanto ambiguo che marchia per sempre la figura di Ugolino:
“Poscia, più che 'l dolor, poté 'l digiuno"
Dante, con uno dei suoi molteplici giochi d'artificio, ci dice e non ci dice.
E commentatori attenti vanno subito ad intercettare questa volontà di ambiguità che ci lascia coinvolti o in un senso o nell'altro senza esprimere un giudizio preciso.
E' certo che il verso non dice chiaramente che il digiuno trasformò la fame in follia antropofaga, ma forse più verosimilmente dice che il colpo finale della morte lo dette, più che il dolore di veder morire i figli, lo dette la fame stessa!
Ma la credenza popolare supera la verità storica e il fatto bolla per sempre un padre che in circostanza estrema si cibò del corpo dei figli ormai deceduti.
Ma non fu così affatto.
Anzi, il Conte Ugolino, per tutto il Canto, resta impavido alla orribile pena infernale che lo attende e totalmente insensibile, sordo, rispetto alla colpa di cui si è macchiato e per questa si trova in questo luogo infernale.
Per tutto il tempo, però, non si arrende, da padre, all’ingiustizia alla quale non lui soccombe, ma soccombono i suoi figli adolescenti che scontano con lui una condanna non loro, una eterna ingiustizia.
“ahi dura terra, perché non t'apristi?”
Nel lamento cosmico del padre Ugolino escono fuori tutti i lamenti di tutti i padri (chi è padre lo sa bene…), compreso il lamento del padre Dante Alighieri di fronte alla giustizia della Firenze del tempo, che condannò a morte in contumacia lui stesso già in esilio (che mai più ritornò nella sua città) e ad ugual pena i propri figli appena divenuti maggiorenni.
Ed è molto probabile (e Dante scrive gli ultimi canti dell’Inferno, proprio a ridosso di quella infamante condanna) che il reale atteggiamento del poeta sia esattamente quello di intima sublimazione di una sua concreta paura tangibile, prendendo a pretesto la cronaca pisana del tempo, di un Conte suo contemporaneo, ma molto più vecchio di lui, che morì quando il poeta aveva solo 24 anni.
Celebre tra questi versi, la citazione del “nostro” monte, del monte alle spalle di San Giuliano Terme appunto il monte che non permette ai pisani di poter vedere Lucca.
Apparentemente la citazione che fa Dante, in relazione all’ultimo terrificante sogno di Ugolino, appare inconsueta, se non del tutto decontestualizzata, in quanto il parlare qui di Lucca risulta fuori logica rispetto all’argomento trattato nel Canto.
Noi sappiamo però che Dante era un profondo conoscitore di tante terre, compresa la nostra, per vari motivi.
Ad esempio Dante fu presente nel 1289 a Caprona (e la cita espressamente in un altro Canto) nell’assedio vittorioso dei fiorentini verso il popolo pisano e poi trova, tra l’altro, nella nostra città un forte contenuto affettivo, in quanto vi è sepolta in Duomo la sua grande speranza e il suo grande abbaglio, ovvero Arrigo VII Imperatore, condottiero sul quale Dante ripose le sue speranze (ahimè mancate) di salvatore della patria italica.
Ma la fondatezza della sua affermazione, in virtù del fatto che i pisani non potessero vedere Lucca, può risiedere nel fatto che questo fosse, diciamo, un luogo comune, un racconto popolare del tempo, correlato al fatto che invece i lucchesi potessero vedere Pisa dai loro territori.
Vederla da dove?
Dalla cima della più alta delle due torri tuttora esistenti a Nozzano, che attraverso la scesa del Serchio, sfiorando di pochi metri la Rocca di Ripafratta, (a soli 12,6 km in linea d’aria) consente di vedere la Torre di Pisa, torre che in epoca Dantesca era già esistente ma non del tutto completata. Infatti mancava solo l’ultimo piano, appunto la torre campanaria, che fu costruita solo nella generazione successiva alla morte di Dante.
Una bella sfida a 360 gradi ci pone Dante in ogni luogo dove mette le mani, dove fa poesia, e noi ne restiamo incantati e accettiamo ogni sfaccettatura compreso quella del nostro monte, dove si trova il Passo di Dante, appunto.
Rimane però il fatto, che una sofferenza così grande come quella dilaniante e immensa che ci esprime Ugolino in quella sua ultima giornata è meglio resti per sempre chiusa in una torre maledetta che non c'è più.
Grazie Dante che sai essere con noi in ogni emozione.