L'articolo di oggi non poteva non far riferimento alla festa del SS. Crocifisso che Pontasserchio si appresta a celebrare, il 28 aprile.Da quella ricorrenza è nata la Fiera del 28, che poi da diversi anni si è trasformata in Agrifiera, pronta ad essere inaugurata il 19 aprile per aprire i battenti sabato 20.La vicenda che viene narrata, con il riferimento al miracolo del SS. Crocifisso, riguarda la diatriba sorta tra parroci per il possesso di una campana alla fine del '700, originata dalla "dismissione" delle due vecchie chiese di Vecchializia.
Esiste ancora in molti il preconcetto che la poesia dialettale, ed in particolare modo la poesia vernacola pisana, abbia come umico fine la battuta grassa e sboccata e che lo scrittore dialettale sia esclusivamente burlesco o parodico, con la conseguenza di considerare la produzione dialettale tra le forme di arte minore o addirittura di << non arte >>. Questo preconcetto, esistito fin dall’epoca del Fucini, si e però spesso dileguato nei critici allorché si sono trovati di fronte ad autori che non indulsero nel carattere buffonesco delle loro opere ma, pur con le... libertà naturalmente derivanti dalla spontaneità popolaresca, seppero infondere nella poesia stati d’animo che rendono tollerabile ed oserei dire benaccetta la parola non ortodossa.
Scrive in proposito il MALAGOLI nella sua “Letteratura vernacola pisana”: “ ... lo scrittore dialettale non dev’essere semplicemente burlesco o parodico se non vuole l’opera sua relegata tra le forme d’arte inferiori, e tanto memo equivocamente lubrico per solleticare istinti bassi e malsani se non vuole scendere più in giù...” (quest’ultimo concetto espresso più di cinquanta anni fa dall’illustre studioso dovrebbe far pensare tanti scrittori moderni).
È indubbio che il vernacolo si presta alla “battuta”, alla trovata spiritosa, ed a tal fine è improntata la massima produzione vernacola pisana compresa quella del caposcuola FUCINI; ma è altrettanto vero che accanto a quella se ne trova altra che si sposta nel campo diametralmente opposto malinconia, del dolore, della tenerezza. Il vernacolo (dal latino “ vernaculus: domestico, natio) è linguaggio del popolo, atto ad esprimere nella maniera più vera e spontanea lo stato d’animo di chi gioisce o di chi soffre, di chi ride o di chi piange. Ed il dolore, la malinconia, il pathos si ritrovano in quasi tutti i poeti, dal FUCINI con i suoi “Povero ’osino”, o “La molte d’un bimbo “, “La mamma molta”, al LAZZERONI con “Un vero amìo “, “Dar rigattieri”, “ Er ceppo”; dal BELLATALLA con “Sera”, “Er vedovo tisio “, “Povero Gianni”, al SARTORI con “Riordanze” e ”Pezzcttino di célo”, la cui ultima quartina ha il sapore dello stornello toscano:
"pezzettino di célo rosa e bianco
basta guardatti e ‘r core si riposa
basta guardatti e ’r core ‘un è più stanco
pezzettino di célo bianco e rosa”.
La poesia vernacola si traduce in vivace acquarello dove le caratteristiche figure si stagliano nitide in un limpido scenario. In ”Alla luminaria” il SARTORI con una semplice sequela di espressioni che escono dalla bocca di una popolana porta il lettore quasi fsicamente tra la folla dei Lungarni in occasione della Luminaria di San Ranieri. I sonetti “Er Corpusdomine ’nsur prato der Domo” e “Una festa da ballo ’n via l’Arancio” del LAZZERONI sono anch’essi due quadretti di una vivacita difficilmente raggiungibile con altri mezzi letterari. Basta la seconda quartina del primo sonetto per farci trovare anche noi in Piazza del Duomo durante la processione del “Corpus Domini” :
— Ononna, l’Arcivescovo ‘val’è?
— Quello che tien quer coso per insù…
— Pigliami in collo, fammelo vedé"
—- Gnamo, basta... mi pesi, ascendi giù...
o la prima terzina del secondo sonetto per riportarci in una “balera” pisana di fine secolo:
“Ragazzi, boni veh colli sgambetti,
'Nsennò, Cristo m’accei, finisce male...
Positivo va ‘opera e' panchetti...”
Ma dove la poesia vernacola trova la sua massima efficacia è nella satira, perché — come dice il MALAGOLI —“ciò si presta ottimamente il dialetto coi suoi scorci e con i suoi motti canzonatori spesso vivacissimi“. QUINTILIANO affermò a suo tempo che la satira era genere letterario tutto latino: “satira tota nostra est”; oggi si può dire che la satira è genere letterario tutto dialettale in quanto, dopo il Giusti, la poesia in lingua ha orientato il suo volo verso altre vette disdegnando l’utile scherno dei costumi e dei vizi e delle passioni degli uomini, forse tanto necessario oggi quanto lo fu nella Roma imperiale del primo secolo dopo Cristo fustigata da Marziale, o nella Roma dei Papi cantata dal Belli (tramandato ai posteri non per la sua produzione arcadica in lingua ma per la sua poesia dialettale.
La poesia satirica, in epoca più vicina a noi, ha avuto tra i poeti dialettali il massimo esponente in CARLO Alberto SALUSTRI (Trilussa) che nei suoi sonetti e soprattutto nelle favole seppe cogliere il contrasto tra le apparenze e le verità della vita e della società della Roma piccolo-borghese dei primi decenni di questo secolo. Fu quella di Trilussa una satira moraleggiante e politica che fece passare il poeta dalla rappresentazione caustica di figure e macchiette all’apologo ed alla favola infondendovi una certa malinconia crepuscolare. Una satira di natura politica si trova anche nel Fucini che non solo mise in ridicolo le istituzioni militari dell’epoca e cioè quella “Guadia Nazionale” sulla quale scrisse i sonetti più noti, ma anche certa disonestà, ancora così attuale, come si può avvertire nel sonetto ”Er camposanto di Pisa”.
Ed un altro poeta vernacolo, il BELLATALLA, fu poeta satirico, seppur con una minore aggressività di quella che normalmente si rileva in tale genere. Dice il Malagoli che nel Bellatalla...”la satira non è mai aspra né personale; ardita e libera ma sempre corretta, serve di efficace monito agli amministratori inetti ed inerti “.
Basta infatti leggere “Ar Sindao di Pisa” del gennaio 1910:
Bon principio sor Sindao! ’ome vede,
vest’anno è stato proprio ’nconcrudente!
Si dice: dove manca Dio provvede...
vì manca tutto e ’un si provvede niente!
Come ho detto, questo sonetto del BELLATALLA è del 1910; mutatis mutandis quei versi sono ancora validi a distanza di ben sessanta anni.
E satira politica e di costume compaiono in vernacolisti contemporanei. I sonetti di ASTIANATTE Giuseppe Chiellini) “Doppo l’alluvione”,
“Il Sindaàato”, “Sacri ideali di partito” esprimono in chiave satirica amare verità sulla situazione politica di oggi, mentre “Esperimento prematrimoniale” e “Lucchi libero docente” sono una triste denuncia del decadimento dei valori morali cui, impassibile o impotente, la generazione dai capelli bianchi assiste.
Nello stesso modo sono da ricordare due vivacissimi sonetti che RENZ0 FERRINI scrisse nel 1953 e che furono pubblicate su “La Cea”, “Organino ufficiale (come lo definì il suo direttore ed animatore DOMENICO SART0RI) del Comitato Renato Fucini”. Nel primo, "Le ’ommissioni de’ lavori” il Ferrini ironizzava finemente sulla lentezza ed inconcludenza con le quali a quell’epoca procedeva la progettazione dei restauri del Camposanto Monumentale; nel secondo invece, “La Prudenza”, prendendo spunto dalla statua della Prudenza che si trova nel Pulpito del Duomo, l’Autore metteva in amara evidenza l’allora già avvertivto decadimento della decenza e della morale. Vale la pena portare questo nella sua integrità alla conoscenza dei lettori.
La prudenza.
Ner purpito der Dòmo, vello antìo,
la statua ‘hiamata “La prudenza”
che nemmeno la foglia ci ha di fio,
ma ci tiene la mana per…decenza,
dice ‘he un giorno un vecchio tonaone
ner vedè quella robba drent’ar Dòmo
ni messe le mutande di bandone
per ‘un solletìa’ le voglie all’òmo.
Ma in questi tempi di modernità,
che donne gnude se ne vede a frotte,
“La prudenza” ‘un è stata lì a pensà,
s’è levata le brae e…bona notte!
“Tanto – ha detto – finimo la ‘amorra,
risémo proprio a Sodoma e Gomorra!
Ho voluto con questa breve rassegna critica, spezzare una lancia a favore della poesia vernacola pisana e, da suo cultore, vorrei che ad essa si dedicassero giovani scrittori perché si rinverdissero le piante…ormai ormai stagionate degli ultimi rapsodi di quella poesia che – parafrasando una definizione del grande e compianto Curzio Malaparte – potremo chiamare dei “maledetti pisani”.
Ettore Tosi.
Da “Rassegna”, periodico culturale e di informazioni, edito dal Comune di Pisa, marzo 1970.