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LIBRI
La libertà dei servi



3/9/2010- "La libertà dei servi" di Maurizio Viroli, professore ordinario di Teoria politica all'Università di Princeton


Rubrica a cura di Elsa Luttazzi


Vorrei oggi proporre un testo piccolo e di agile lettura, ma che ben si presta all’approfondimento di alcuni importanti temi della vita civile dei nostri difficili tempi: La libertà dei servi, di Maurizio Viroli (Laterza 2010). L’autore, professore ordinario di Teoria politica all’Università di Princeton e titolare di molte altre prestigiose cariche, ha la rara qualità di saper scrivere di argomenti elevati con un linguaggio accessibile a un pubblico più largo dei professionisti della storia e della politica: in altri termini sa fare opera di divulgazione ad alto livello.
Nella premessa l’autore definisce sinteticamente due tipi di libertà, consegnandoci nello stesso tempo la spiegazione del così lungo sottotitolo che appare in copertina (Se essere cittadini liberi vuol dire non essere sottoposti a un potere enorme e assolvere i doveri civili, è evidente che gli italiani non possono dirsi liberi; ossia, sono sì liberi, ma liberi nel senso della libertà dei sudditi o dei servi) e la chiave di lettura del libro.
Veniamo quindi alle definizioni:

La libertà dei servi o dei sudditi consiste nel non essere ostacolati nel perseguimento dei nostri fini. La libertà del cittadino consiste invece nel non essere sottoposti al potere arbitrario o enorme di un uomo o di alcuni uomini.

Le due forme di libertà appaiono entrambe soddisfacenti dal punto di vista dell’interesse individuale, meramente egoistico, ma le differenze sono assai profonde dal punto di vista politico e sociale e nascono da modi di vivere e di pensare inconciliabili. Viroli ripercorre questi concetti con riferimenti all’evoluzione storica del pensiero filosofico, giuridico e politico, tenendo presente anche testimonianze legate alla cultura letteraria, nell’intento di rendere tangibilmente visibili e apprezzabili le differenze, senza la pesantezza dell’esibizione erudita.
La prima importante differenza tra le due libertà si evidenzia nel rapporto con le leggi.
La libertà dei servi vuol dire

Che né altri individui né lo Stato ci impediscono di agire come meglio crediamo.

Una libertà però che, in primo luogo non è di tutti, perché occorre avere le capacità, ma soprattutto i mezzi per esercitarla. Una libertà che si esprime soprattutto in un contesto di assenza di leggi:

Secondo l’idea che domina il nostro tempo, la libertà è tanto più grande quanto minore è il numero e la forza delle leggi che limitano la nostra possibilità di azione.

Il punto centrale di un sistema costruito all’insegna di una libertà senza impedimenti è che tale libertà è concessa da un sovrano assoluto che pretende obbedienza e che esercita il suo potere all’interno

di quello che ho definito il sistema della corte, vale a dire una forma di potere caratterizzato dal fatto che un uomo sta al di sopra e al centro di un numero più o meno grande di individui –i cortigiani- che dipendono da lui per avere e conservare ricchezza, status e fama.

La libertà dei cittadini invece, prima fondamentale differenza,

non è una libertà dalle leggi, ma una libertà grazie o in virtù delle leggi. Perché vi sia vera libertà è necessario che tutti siano sottoposti alle leggi, o, come recita il classico precetto, che le leggi siano più potenti degli uomini.

Grazie al fatto che essa è garantita dalle leggi essa spetta a tutti, ma

non è un bene che si ha e si gode quale che sia il nostro modo di vivere, ma il premio che riceviamo se operiamo bene, ovvero se assolviamo i nostri diritti civili.

E qui forse il linguaggio diventa incomprensibile e il messaggio poco appetibile per i nostri tempi rilassati

Per un suddito o un servo essere liberi significa soltanto avere la libertà e godersela senza interferenze e ostacoli; per i cittadini è il premio per aver agito secondo virtù.

Il sistema che consente l’espressione di questa libertà è la repubblica, intesa come res publica, un sistema il cui significato essenziale consiste

Nel non essere dominati, ovvero non essere sottoposti al potere arbitrario o enorme di un altro uomo o di altri uomini.

Ma vediamo più da vicino il sistema della corte che oggi, come sempre, consente la libertà dei servi. Il suo significato già in sé negativo, viene ulteriormente sottolineato da un’esclamazione di Giovanni Sartori (“Il sultanato”, Laterza 2009) che Viroli fa sua: Qui siamo al sultanato, alla peggiore delle corti! Al centro della corte si trova il signore che ha il potere

Di distribuire ai cortigiani benefici materiali e simbolici e di minacciarli, altrettanto efficacemente, di privarli di tali beni. Nel sistema di corte anche il principe dipende in una certa misura dai cortigiani e da tutti coloro che egli può beneficiare o minacciare.

La corte dei nostri giorni ha le caratteristiche di un sistema politico che ha una lunga e studiata tradizione storica. In primo luogo i partecipanti del sistema, cioè i cortigiani devono rinunciare a se stessi

Non basta che eseguano i suoi ordini,bisogna anche che immaginino quello che vuole e, spesso, persino che prevengano i suoi desideri. Obbedirgli non basta, resta ancora da compiacerlo; bisogna che si logorino, si affannino, si ammazzino per fare i suoi affari, e poiché si compiacciono solo nel piacere di quello, devono sacrificare i propri gusti in favore dei suoi, rinunciare al proprio temperamento, spogliarsi della propria indole…

La corte tratta degli affari pubblici come se fossero privati:

Quando i Medici erano signori di Firenze, uno dei segni più evidenti del loro potere, e più offensivo della libertà repubblicana, era la pratica di trattare le questioni politiche non nelle pubbliche sale, ma nei loro sontuosi palazzi.

In tutte le corti ci sono sempre state le cortigiane:

Il ruolo delle donne è allietare il signore e i cortigiani. Senza di loro la corte sarebbe tetra e noiosa. Il loro numero, la loro bellezza e giovinezza sono il segno della sua potenza. Per i loro servigi ricevono vari benefici, primo fra tutti quello di apparire a fianco del signore e dei potenti nello splendore dei loro abiti e dei loro ornamenti. Alle più abili e intraprendenti, il signore concede l’onore di partecipare, direttamente o indirettamente, alla gestione del potere.

E non mancano nemmeno i giullari incaricati di divertire, ma anche di amalgamare i consensi nel coro unanime di inni di riconoscimento delle qualità del signore e dell’animo servile dei sudditi.
A una alta tradizione politica si ispira questo sistema di corte che riesce a vivere all’ombra di istituzioni repubblicane per cui non c’è bisogno di violenza, né per conquistare il potere né per mantenerlo, in quanto si agisce per le vie private che consistono, come ci spiega Machiavelli, nel fare

Beneficio a questo ed a quello altro privato, col prestargli danari, maritargli figliuole, difenderlo dai magistrati e faccendogli simili privati favori, i quali si fanno gli uomini partigiani e dànno animo a chi è così favorito di poter corrompere il pubblico e sforzare le leggi.

L’unica differenza con le grandi corti del passato è nel numero dei cortigiani:

I cortigiani che vivevano nelle corti principesche e regali vedevano il principe o il re con i loro occhi e ascoltavano direttamente le sue parole, ma il loro numero non andava oltre le poche migliaia. Oggi, nella corte nata all’interno della democrazia, il popolo dei cortigiani conta milioni di individui, che grazie ai mezzi di comunicazione di massa vedono il principe e ascoltano le sue parole ogni giorno.

Volutamente ho evitato di riportare le esemplificazioni concrete delle manifestazioni cortigiane di oggi, proprio per non privare il lettore del divertimento di anticipare con la propria fantasia le sconcertanti analogie. È il caso invece ora, di fare preciso riferimento al contesto italiano di oggi proprio per sottolineare il preoccupante dato dell’ampia base di partecipazione a tutto il sistema. Nessun dubbio sul come, grazie ai potenti mezzi di comunicazione di oggi, si sia creato un così folto popolo di cortigiani. Un interrogativo inquietante è invece sulle ragioni profonde di questa adesione di massa. È noto che il giudizio espresso da illustri italiani sugli italiani stessi non è un coro unanime di elogi. Per limitarsi ad alcuni dei più autorevoli: Leopardi si è soffermato su alcuni tratti dell’animo servile che, afferma, nasce dall’indifferenza


radicata ed efficacissima verso se stessi e verso gli altri, che è la maggior peste de’costumi, de’caratteri e della morale.

Quella profonda indifferenza che alimenta

Un pieno e continuo cinismo dell’animo, di pensiero, di carattere, di costume, d’opinione, di parole e d’azioni.

Altra voce morale critica degli italiani è quella di Carlo Rosselli, che nelle sue considerazioni sul fascismo italiano afferma:

Ora è triste cosa a dirsi, ma non per questo meno vera, che in Italia l’educazione dell’uomo, la formazione della cellula morale base –l’individuo-, è ancora in gran parte da fare. Difetta nei più, per miseria, indifferenza, secolare rinuncia, il senso geloso e profondo dell’autonomia e della responsabilità. Un servaggio di secoli fa sì che l’italiano medio oscilli oggi ancora tra l’abito servile e la rivolta anarchica. Il concetto della vita come lotta e missione, la nozione della libertà come dovere morale, la consapevolezza dei limiti propri e altrui, difettano.

Viroli acconsente sulla secolare debolezza morale degli italiani, ma accanto a questa causa generale, di contesto, indica come vera ragione della trasformazione della repubblica democratica in una corte il “tradimento dell’élite”: la responsabilità principale non sarebbe del popolo ma dell’élite politica, militare, finanziarie e religiosa . Riconosciuto che il disagio attuale della vita politica italiana trova le sue radici nel costume e non nelle istituzioni Viroli conclude il suo lavoro proponendo rimedi che sono soprattutto di natura etica. Un buon punto per ripartire potrebbe essere cercare ispirazioni e radici nel Risorgimento di cui oggi si celebra , spesso senza vero convincimento, l’imminente ricorrenza dell’Unità d’Italia.

Il risorgimento c’è stato perché abbiamo avuto uomini dotati di grande forza interiore, liberi moralmente e perciò invincibili e capaci di suscitare grandi energie politiche.
 
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