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L'articolo di oggi non poteva non far riferimento alla festa del SS. Crocifisso che Pontasserchio si appresta a celebrare, il 28 aprile.Da quella ricorrenza è nata la Fiera del 28, che poi da diversi anni si è trasformata in Agrifiera, pronta ad essere inaugurata il 19 aprile per aprire i battenti sabato 20.La vicenda che viene narrata, con il riferimento al miracolo del SS. Crocifisso, riguarda la diatriba sorta tra parroci per il possesso di una campana alla fine del '700, originata dalla "dismissione" delle due vecchie chiese di Vecchializia. 

. . . non discuto. Voi riformisti fate il vostro cammino .....
. . . l'area di centro. Vero!
Succede quando alla .....
. . . ipotetica, assurda e illogica. L'unica cosa .....
. . . leggo:
Bardi (c. d) 56% e rotti
Marrese ( c. .....
per pubblicare scrivere a: spaziodonnarubr@gmail.com
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Di Gavia
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di Michelle Rose Reardon a cura di Giampiero Mazzini
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di Mollica's
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Di Siciliainprogress
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Non cancellerò
Quella foto tua
Come la gioconda
E la rosa gialla
Sulla pelle mia
Stare insieme a te
In quest anni miei
Insieme a tutto il resto
Tu .....
La Proloco di San Giuliano Terme, attenta alla promozione e alla valorizzazione dell'ambiente indice il concorso "il giardino e il terrazzo più bello" .....
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I FUNAI

22/10/2011 - 23:50

 
I funari

A Serracapriola (provincia di Foggia) lavoravano con le loro famiglie, di solito all'aperto perché avevano bisogno di molto spazio, i funai.
 
La bottega, a pochi passi da casa, era un basso lungo circa 25 metri. Doveva essere necessariamente lungo poiché l'artigiano, procedendo a ritroso, doveva guidare l'intreccio della corda il più lungo possibile.
L'attrezzo che si usava era una grossa ruota in ferro e legno con manovella collegata mediante una puleggia all'aspo composto da quattro filatoi muniti di ganci. Il tutto era fissato su una pesante base di legno.  

Il lavoro iniziava quando il ragazzo, seduto su una seggiola impagliata, azionava la ruota, il più delle volte con i piedi scalzi per poter sfogliare il fumetto che gli rendeva meno monotono quell'esercizio forzato.

I funai agganciavano a due filatoi, tirandole fuori dal grembiule, le prime filacce di canapa (stòpp).
Indietreggiando sempre, le infilavano una per volta nelle funi che già venivano formandosi, attorcigliandosi, grazie al movimento della ruota. Questo ritmo doveva essere eseguito con metodico tempismo: se troppo lento non faceva attorcigliare bene la fune, se troppo veloce non permetteva l'inserimento della filaccia.  

Si partiva dalla canapa grezza. Poi si realizzava la commettitura: la fibra utilizzata, dopo numerose manipolazioni, si trasformava in fibre elementari che, ritorte tra loro e intrecciate, formavano il trefolo. Secondo il numero di trefoli utilizzati il funaio realizzava cordami semplici o composti a due o a più trefoli.
Per intrecciare i cordami composti si serviva di un piccolo tronco di cono con scanalature (u cùgne) che prillava fra le sue mani avvolgendo il cordame, mentre un terzo artigiano tendeva i capi, legati a un gancio, in fondo alla bottega.  In rapporto all'uso venivano prodotti tanti tipi di corde: zòche, zùchèrèll, curdèll, zègàgghje, stràcche, che venivano venduti a peso con la stadera.  

Alcuni prodotti venivano acquistati dai sellai per completare i finimenti degli animali da tiro e dai contadini che li usavano per ogni tipo di lavoro.

La fune era preziosa, come il pane, per tutti.
La corda rivestita di cuoio (u fescechéle) all'estremità delle stanghe del carretto, legate nei fori degli archi di legno del basto, le funi sciolte (chepezz e chèpezzòne), la corda lunga di circa quattro metri che veniva passata sopra il carico e serviva per imbracarlo, le redini (rétene) per guidare gli animali da tiro, le tirelle (terante) dei cavalli ai lati del carretto o dell'aratro, la lunga frusta (crèvasce) che si tesseva a quadretti per legare i piedi del cavallo, le lunghissime funi per attingere l'acqua dai pozzi che, quando si spezzavano, per riutilizzarle si riunivano i capi con un intreccio (ngghjummèture), i zòche pi pànn usate da tutte le casalinghe, i curdèll per legare i sacchi pieni di grano o di olive e i tappi di sughero alle bottiglie di salsa.
Spesso sostituivano le cinghie per reggere i pantaloni dei contadini.

Ai bambini servivano per gli archi, da cui si facevano scoccare le frecce di ferro, ricavate dalle asticine degli ombrelli rotti, a zègàgghje ben arrotolata alla trottola di legno per farla girare velocemente, a zòche pi sciàmbele (altalena) legata agli stipiti dell'uscio di casa o da un muro all'altro della strada,.la corda usata dalle bambine per saltellare e quella, più grossa, per il tiro alla fune.

 Il funaio forniva la sua materia prima, la canapa, a stòpp, agli idraulici e ai bambini che, sciamando sempre vicino alla sua bottega, nei momenti di disattenzione dell'artigiano, gliene trafugavano per fare i proiettili (palline di canapa impastate con la saliva) pi sckùppèrule, piccoli schioppi in legno di sambuco.  

Egli vendeva il suo prodotto, oltre che in bottega, anche nelle fiere. In paese alla fiera di Santa Rosalia costruiva la sua baracca sul posto assegnatogli dal vigile, e lì pernottava. Al mattino attendeva gli acquirenti, anche dei paesi viciniori, che in questa festa facevano gli acquisti necessari. In ogni casa i resti di spaghi, cordicelle, fettucce, dopo aver sciolti i nodi, venivano avvolti con cura in matassine e conservati nell'apposita scatola o nel tiretto, dove trovava posto anche la carta.

Cose, oggi, insignificanti, da buttare, dopo un uso frettoloso.  Lo spago di Pasquale e di Vincenzo ha svolto il suo umile servizio fino all'esodo degli anni 60, nell'accompagnare, assicurando i bagagli di cartone, gli emigranti in viaggio verso l'estero o il nord Italia.

Già da parecchi anni il mestiere del funaio è scomparso, ma l'emigrazione dei serrani, oggi con i borsoni di plastica a chiusura lampo, continua inesorabilmente.
 
Passiamo ora dall’Adriatico al Tirreno, a Viareggio.


Emilio Guidi, della stirpe dei “Mangiastoppa”, nel marzo del 1973 scrisse questa breve nota su uno dei più tradizionali lavori che si svolgevano a Viareggio: quello della lavorazione delle funi.

È una descrizione attenta e ricca di particolari sulla tecnica adottata per la fabbricazione artigianale dei cavi di stoppa, usati tanto dalla marineria  velica viareggina,  quanto dai cavatori delle Apuane per la manovra delle lizze.


“Lavoravano all’aperto d’estate e d’inverno in un vasto campo che si stendeva fra le vie XX settembre e l’attuale via Vespucci e fra la via Paolina e la via Fratti, oggi tutto edificato tranne la Piazza Piave.

Era una concessione comunale condivisa fra diverse ditte (oggi tutte scomparse) ove primeggiavano il Bertuccelli (Santinotto) i Guidi (Mangiastoppa), il De Ranieri (Paradiso).

Diverse diecine di uomini vi hanno lavorato per molti anni alla produzione di funi e cavi da marina e grossi canapi per le lizze carrarine… 

Era gente rustica e temperata per il lavoro all’aperto, l’orario era pressoché fra l’alba e il tramonto, d’inverno e d’estate. Non erano astemi. Campavano cent’anni.
Egisto di Pigia, il Giovenco, Maggiano, sono alcuni fra gli stranomati.

Il loro lavoro era suddiviso in varie fasi: la prima era quella della filatura del trefolo (loro dicevano il filo) del diametro di cinque o sei millimetri, ricavato da un’ottima  qualità di canapa ferrarese. Filavano la canapa corta, avvolgendosi al ventre (come un grosso cuscino) un gran ciuffo di canapa che chiamavano -menata-; oppure filavano la canapa lunga, grossa coda fissata all’estremità di una asta lunga almeno due metri, asta che i funari assicuravano ad una cintura e ad una fascia passata a tracolla come una grossa bretella.

Il campo di lavoro era lungo cento metri e più, largo una ventina; una striscia era riservata alla filatura, un’altra, a questa parallela, era usata per la composizione dei cavi. Il campo di filatura comprendeva pochi, modesti e primitivi attrezzi. Alcune ruote (parte di legno, parte di ferro) di un diametro un metro o poco più, sulle quali erano avvolti alcuni anelli di corda, a guisa di cinghie di trasmissione, che trasmettevano il movimento rotatorio ad alcune carrucole (cinque o sei) di alcuni centimetri di diametro, ricavate da legno duro, ruotanti intorno ad un perno fissato ad un robusto supporto di legno piantato nel suolo ed forma di croce.

L’impulso rotatorio era dato da un ragazzotto, con la manovella fissata alla ruota.

All’estremità libera delle piccole carrucole (o rocchetti) un anello, fatto di corda, agganciava la canapa che il funaro ci introduceva e questo era l’inizio del lungo trefolo che poi ne usciva fuori.

Il ragazzo che girava la ruota di tanto in tanto si distraeva oppure batteva la fiacca; la rotazione dei rocchetti andava a rilento e, allora, i funari da metà campo lo apostrofavano -Gira, nato d’un cane… e anche peggio!


 L’uomo che filava camminava a dorso indietro (o come suol dirsi a culo addietro) con passo relativamente lento. Ogni quindici metri circa vi era un crocile (appunto perché fatto a croce) di legno alto un metro e mezzo con la traversa di un metro circa, piantato al suolo, ove sopra la traversa vi erano piuoli divisionali per l’appoggio e il distanziamento fra i singoli refoli dei singoli funari. Attaccato al crocile con un anello di corda, un grosso buiolo, sempre rinfornito d’acqua, permetteva agli uomini di zuppare l’-arbagio-. un grosso cuscinetto fatto di ritagli di stoffa pesante, che il funaro teneva nella mano destra, attraverso al quale passava la canapa tirata dal funaro, con la stessa mano, dalla lunga coda fissata all’asta... I fili (i trefoli.) venivano “impiombati” (congiunti alte loro estremità) e raccolti in un grosso rocchetto, che i funari chiamavano stornello, (una specie di grossa bobina), girato da un ragazzo, mentre un altro ne guidava la corsa lungo il campo perché non s’ingambasse, cioè il filo non si attorcigliasse su se stesso. Al termine della giornata, uno o più stornelli, accuratamente avvolti con centinaia e centinaia di metri di filo, venivano portati in magazzino…
 
 Dai grandi stornelli, cioè dalle grosse bobine,  si sdipanava il filo che veniva raccolto in centinaia di stornellini (rocchetti) mediante un sistema di rotazione impresso con una ruota girata a mano, che prendeva il nome caratteristico di barabulla, termine la cui etimologia non mi dato di poter spiegare.

Dopo avere accumulato una notevole scorta di rocchetti questi venivano inviati al campo, sistemati su appositi telai in ferro dove ruotavano su piccoli assi di acciaio. La cima dei trefoli di ciascun rocchetto veniva fatta passare da una trafila, grande piastra di ferro forellata, assicurata ad un robusto palo fissato al suolo, e tutti riuniti  i trefoli formavano il legnolo.

Dall’unione dei legnoli si otteneva il cavo. Generalmente i cavi piani (piccoli o grossi) erano formati da tre legnoli, ma ve ne erano anche a quattro. Vi erano poi dei particolari grossi cavi torticci- formati dall’unione di tre cavi.  Queste funi avevano dei nomi a seconda dell’uso cui erano destinate: sferzine, molto usate per le barche da pesca, toneggi, cavi da ormeggio, cavi da rimorchio, gratili (che servivano al contorno delle vele), grossi canapi per lizze marmifere, ecc.

Vi era poi una categoria di funicelle molto usate a bordo - generalmente catramate- che si chiamavano comando, lesino, merlino ecc., per legature e finiture su manovre varie delle barche.  Il legnolo veniva effettuato mediante l’impiego di una carretta con quattro ruote di ferro piccole e di larga carreggiata. Due uomini vi prendevano posto per imprimere movimento rotatorio, mediante una piccola macchina con ingranaggi, volano e manovella, all’insieme dei trefoli per la torcitura. Un paio di buoi e un bifolco che li guidava, trainavano la carretta a passo molto lento. Giunti all’estremità del campo (cento metti ed anche più), il legnolo era reciso all’origine, distaccato dall’asse con chiavetta della macchina sulla carretta e passato ad una macchina per una supplementare torsione …


Secondo l’uso e la destinazione  delle funi, molte venivano impermeabilizzate mediante catramatura a caldo La catramatura avveniva con inizio dal trefolo fatto passare in un grosso recipiente di ferro o di ghisa, che i funari chiamavano caldaia, obbligato a passare a metà livello sotto una sbarra traversante il recipiente, e veniva raccolto in un grosso rocchetto . Il recipiente, sempre accuratamente rifornito di ottimo catrame, era scaldato con fuoco a legna su un fornello veramente primitivo…  

Si facevano anche cavi di cocco e di manilla. L’attività dei funari, legata per la massima parte alla marineria, era un fattore di economia e di lavoro notevole, se si pensa che venivano fatti acquisti di canapa nel ferrarese per partite di dodicimila-quindicimila lire per volta, equivalenti senza dubbio a parecchi milioni di oggi.


Emilio Guidi di Mangiastoppa.
(Pubblicato sulla rivista “Viareggio ieri”, anno III, n. 18 giugno-luglio 1990).

 

A parte le notizie interessanti del lavoro e dell’ambiente dove vivevano i funari, o cordai,  è da notare, nei due articoli dei paesi lontanissimi fra loro, che era l’ambiente circostante con la domanda di funi che faceva la differenza, non nella fabbricazione e nei nomi dialettali di difficile interpretazione, ma nell’uso: contadino in provincia di Foggia e marinaresco in quella di Lucca.
E in tutti e due gli ambienti, significativo e stranamente coincidente, vi è il ragazzo che lavora, si annoia e cerca di rimanere ragazzo, anche se in quegli anni la fanciullezza passava troppo velocemente.


La fune è un “attrezzo” antichissimo e indispensabile all’uomo, mai sorpassato da marchingegni moderni: basta guardare i film di sopravvivenza estrema e si vede che la prima cosa che il protagonista cerca di fare è proprio una corda.


Le foto da 1 a 3 sono  di funari viareggini, dalla 4 alla 8 cordai di Serracapriola, la 9 e la 10 funai lungo le mura di Lucca, dalla 11 alla 15 “cordiers” francesi, addirittura sulla piazza della cattedrale di Marsiglia (per aver più spazio!), mentre le ultime sono di un uso della nostra “fune” molto in voga all’inizio ‘900: quella di “salvagente”, vale a dire che faceva da succedaneo all’odierno bagnino e alla bandiera rossa issata a dire “attenti al mare mosso”.
Questa pratica è stata in uso sulle spiagge pubbliche sia del Mediterraneo che degli altri mari, come dimostra l’ultima foto di bambini che giocano con la fune in un momento di bassa marea che si manifesta significativamente nel nord della Francia.
 

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