Il nuovo articolo di Franco Gabbani non riguarda un personaggio o un evento in particolare, ma esamina un aspetto sociale e lavorativo che, presente da molti secoli, ebbe grande sviluppo nell'800 ( fino all'inizio del '900), ma che fortunatamente terminò relativamente presto, grazie agli sviluppi economici e scientifici.
Si tratta del baliatico, un'attività spesso vista benevolmente, ma che è stata definita "calamità occupazionale"
Qualche settimana fa, su Repubblica mi ha colpito un aricolo titolato così: Dal pianto ai giochi, il mestiere di genitore ora si impara a scuola.
La prima volta che ho sentito parlare di questo progetto, del sostegno alla genitorialità, era alla fine degli anni 90, allora ci si ponevano dubbi sulla semantica, era meglio dire scuola dei genitori o scuola per genitori? La tendenza di allora pendeva per la prima ipotesi, mettendo l'accento sulla necessità di costruire un patto educativo tra famiglie e scuola, sulla necessità di superare l'impasse in cui si trovavano, e si trovano, le rappresentanze dei genitori all'interno della scuola, per stemperare quell'autoreferenzialità che ha sempre annebbiato gli scenari della scuola, e sulla importanza di costruire uno spazio dove fosse possibile passare dal fare le domande al farsi domande. Questo passaggio è importante perchè rimette al centro la persona con la sua esperienza e con il suo vissuto, la mette al centro della propria vita, le assicura un ruolo attivo, anche nei confronti dell'esperto e non di delega, di dipendenza. Allora la parola d'ordine era empowerment.
La componente pedagogica del sostegno alla funzione genitoriale era presente, ma non preponderante, si cercava di costruire uno spazio di confronto di dialogo sulle difficoltà dell'educare. Difficoltà vissute nel quotidiano sia da genitori che dagli insegnanti/educatori, e che inevitabilmente presentavano effetti anche tra i banchi di scuola, era un modo per creare vicinanza psicologica e anche fisica tra adulti che a vario titolo si occupano di educazione e tra adulti e bambini/e. Si cercava di costruire una comunità educante abitata a pieno titolo da persone con diversi saperi, ruoli e competenze.
Le prime sperimentazioni non andarono molto bene perchè in realtà il tutto venne gestito dagli esperti che si recavano nelle scuole e gestivano gli incontri, questo portò come conseguenza di oscurare la normalità delle difficoltà, il loro aspetto di quotidianità. Diversamente accadde dove gli insegnanti ebbero l'occasione di formarsi e tennero loro stessi gli incontri, costruendo una mappa di possibilità e di significati con i genitori, poco alla volta, facendo tesoro di quello che accadeva in quelle situazioni, ascoltando davvero, aggiustandosi reciprocamente, imparando e riposizionando di volta in volta i propri convincimenti.
Cerco un po' di notizie e ne trovo una quantità enorme, quella più ricorrente va sotto il nome di Impresa-Famiglia, scuole per genitori in tutta Italia coordinate da Paolo Crepet. Leggo una sua intervista:
«IRROBUSTIREMO la schiena dei genitori e di conseguenza anche quella dei figli...chi viene avrà il diritto di fare qualsiasi tipo di quesito», anticipa Crepet. "All’inizio delle serate, verranno infatti forniti i numeri di cellulare dei relatori e i genitori potranno spedire ‘in diretta’ le loro domande, anche restando anonimi."
Sono un po' preoccupata, non mi suona bene, sarò prevenuta?
In tutti gli articoli che leggo si parla del mestiere di genitore, è un modo di dire? Si può darsi, ma i modi di dire a volte si trasformano in verità. Poco più in là leggo “un figlio è un investimento”.
Tutto vero, soprattutto oggi, ma mi si alzano lo stesso le antenne.
Essere genitori è un mestiere? Oppure è uno stato della vita a cui si accede, da cui non ci si licenzia? Mi piace pensarlo di più come una fase della vita che ti richiede un cambiamento, una consapevolezza del ruolo, una responsabilità di fronte a qualcuno che ha bisogno di te, che subirà le conseguenze del tuo fare e del tuo dire, del come e del quanto, del perchè, dei tuoi si e dei tuoi no, delle scelte che farai. I bambini hanno bisogno di adulti. Ed è vero che l'adultità sembra una fase della vita in via di estinzione, siamo tutti preferibilmente ragazzi e giovani. Ed è un bel guaio, bello grosso.
I bambini hanno bisogno di costruire la propria autonomia, piano piano. Non hanno bisogno di essere solo un investimento, soprattutto non hanno bisogno di essere investiti delle aspettative dei genitori, hanno bisogno di capire quali siano le proprie.
Pensare al rapporto con i bambini come qualcosa di solo e soltanto naturale è improprio, lo sappiamo. Essere un “genitore sufficientemente buono” chiede l'assunzione di responsabilità, chiede di fare un lavoro su noi stessi, chiede tempo per cotruire la relazione, per averne cura, per nutrirla e noi siamo poveri di tempo.
Non voglio criticare queste iniziative, perchè io in quel progetto con i genitori ci avevo creduto, perchè credo che ogni occasione che ci permette di crescere sia una buona occasione, ma sono prudentemente preoccupata, soprattutto in questa fase di disorientamento sociale, culturale ed economico, in un momento in cui gli esperti sono così altamente quotati, a loro affideremmo qualsiasi cosa sicuri che farebbero meglio di altri. Esperti, tecnici...e noi che facciamo? Che ne facciamo della nostra facoltà di guardare, capire, vivere? Che ruolo diamo al nostro saper stare nella quotidianità, alla nostra esperienza, al nostro vissuto? Abdichiamo ad ogni nostro ruolo, ad ogni responsabilità, anche quella verso i nostri figli?