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L'articolo di oggi non poteva non far riferimento alla festa del SS. Crocifisso che Pontasserchio si appresta a celebrare, il 28 aprile.Da quella ricorrenza è nata la Fiera del 28, che poi da diversi anni si è trasformata in Agrifiera, pronta ad essere inaugurata il 19 aprile per aprire i battenti sabato 20.La vicenda che viene narrata, con il riferimento al miracolo del SS. Crocifisso, riguarda la diatriba sorta tra parroci per il possesso di una campana alla fine del '700, originata dalla "dismissione" delle due vecchie chiese di Vecchializia. 

. . . presto presto. Io ho capito che arrampicarsi .....
I democristiani veri e finti che si vorrebbero definire .....
. . . non é certo colpa mia e dello mondo difficilerrimo .....
. . . anche te racconta che c'entrano i voti del 1978, .....
per pubblicare scrivere a: spaziodonnarubr@gmail.com
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Di Gavia
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di Michelle Rose Reardon a cura di Giampiero Mazzini
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di Mollica's
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Di Siciliainprogress
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Colori u n altra rosa
Una altra primavera
Per ringraziarti amore
Compagna di una vita
Un fiore dal Cielo

Aspetto ogni sera
I l tuo ritorno a casa
Per .....
Oggi è venuto a mancare all’affetto di tutti coloro che lo conoscevano Renato Moncini, disegnatore della Nasa , pittore e artista per passione. .....
di Marco Filippeschi
Ecco perchè il Presidente Mattarella aiuterà il percorso delle riforme istituzionali

2/2/2015 - 14:59

Sergio Mattarella sarà di certo un presidente garante della Costituzione, come vuole la Costituzione. Ma sarà anche il presidente che vorrà aiutare il parlamento e gli attori del sistema politico a sviluppare un percorso di riforme istituzionali profonde e di modernizzazione dello stato.
In particolare, sarà fondamentale l’attenzione al compimento e allo sviluppo di riforme che sono strettamente correlate: quella del parlamento e quella elettorale, quella delle regole e  delle condizioni d’esercizio del ruolo dei partiti politici e quelle della pubblica amministrazione.
La biografia politica del nostro presidente, la sua formazione e le sue esperienze nelle massime istituzioni di garanzia danno già un profilo molto marcato. Ma forse è la biografia intellettuale, sono le radici culturali di un’appartenenza politica a dare certezza di un’interpretazione attiva e propositiva del suo compito.
Sergio Mattarella appartiene alla cultura cattolico democratica che negli anni settanta riconobbe la crisi irreversibile del sistema politico e degli equilibri costituzionali della «prima repubblica», insieme alla perdita di prospettiva del potere democristiano e dell’opposizione-interlocuzione a questo del Pci. Democristiani di sinistra, portatori dell’impronta culturale di Aldo Moro, e una nuova leva di socialisti autonomisti di sinistra, fra i quali Giuliano Amato fu protagonista, videro la crisi ed elaborarono risposte: cambiare la Costituzione per difenderne principii e sostanza, edificare una democrazia dell’alternanza.

 

Queste risposte furono ostacolate e contraddette negli anni ottanta, per i ritardi ingiustificabili del partito comunista – gravi negli effetti quanto quelli a separarsi dall’esperienza, fallita già al suo inizio, del comunismo reale –, per le dinamiche internazionali e per quelle complicatissime della politica interna, che videro prevalere un riflusso conservatore e degenerazioni, una concezione provinciale, subalterna  della modernità e dei compiti dell’Italia nell’evoluzione europea e globale. La sconfitta dei rinnovatori fu condizionata dall’offensiva del terrorismo, che ne prese a bersaglio i protagonisti. La risposta che si seppe opporre all’eversione cementò ragioni di unità profonde fra forze diverse – un patrimonio vero che poi riemergerà – ma non ebbe uno sbocco politico.
Uomini come Roberto Ruffilli, come Leopoldo Elia, Pietro Scoppola e Nino Andreatta, furono colpiti e sconfitti, ma gettarono le basi di una rigenerazione, di un cambiamento che è ancora da compiere. Le prime innovazioni istituzionali prodotte nel vivo della crisi italiana successiva alla caduta del muro di Berlino, all’insegna del bipolarismo maggioritario, con le resistenze politiche ad unire forze affini, per sottovalutazione della crisi, hanno visto aprirsi il ventennio segnato dal dominio di Silvio Berlusconi sulla destra italiana e dato il progetto incompiuto dell’Ulivo e quello del Pd. I ritardi storici si sono pagati a caro prezzo.
Oggi s’impone rispondere ad una crisi democratica acuta che non è soltanto una crisi italiana. La crisi delle democrazie è parte di una crisi globale che ha ragioni ed espressioni profonde. Questo è un motivo in più perché i paesi europei l’affrontino, anche nella dimensione dell’Unione europea, e in particolare perché ci faccia i conti chi mostra le maggiori arretratezze e la più grave delegittimazione delle istituzioni. E’ il caso dell’Italia. Il nostro paese presenta tutti i fattori di crisi e occupa i posti più bassi di ogni classifica di efficienza democratica. Il sistema parlamentare è costruito in modo da rallentare la produzione legislativa – pare poco? chi può dimostrare il contrario? – e la supplenza del potere esecutivo è diventata organica, necessaria, per quanto anomala e squilibrante. Le leggi elettorali non hanno concorso a stabilizzare il sistema. I partiti politici non trovano fondamenti certe e sono soggetti a transizioni interminabili, ad una mutevolezza che non consente riconoscibilità e senso d’appartenenza, certezza d’indirizzi, rischio del cambiamento e riconquista della fiducia dei cittadini. La burocratizzazione dello stato e l’anchilosi dei suoi apparati centrali, l’ipertrofia legislativa e amministrativistica, hanno creato veri e propri congelamenti autoreferenziali e hanno contribuito a  mantenere un alto debito dissipativo. L’apparato fiscale non garantisce rigore ed equità, quello della giustizia è gravemente carente, quello della formazione non regge il passo. Le mafie italiane, potenze sovranazionali, si sono ramificate nell’economia profonda, in territori lontani dalle regioni sorgenti, e la corruzione reale o percepita si ripropone come regola.

 

Livelli di governo distinti si sono sovrapposti, con conflitti istituzionali vissuti – fra stato e regioni – o subiti – dalle autonomie locali – con un progressivo allontanamento da obiettivi di razionalità, appropriatezza e sobrietà. E molto altro si potrebbe aggiungere.
Di fronte a questa situazione non si possono giustificare infingimenti. Prima di discutere delle politiche si deve decidere sull’agibilità della politica.
La competizione globale vede in campo potenze democratiche che hanno messo a profitto le ultime rivoluzioni scientifiche e potenze a democrazia ridotta o a-democratiche. Vede in campo poteri sovranazionali: da quelli della finanza a quelli dei big della rete. Per attori decisivi, per ragioni anche molto diverse, i costi della democrazia sono contenuti e i sistemi decisionali, quelli di stato, dimostrano efficacia. Per le potenze private i costi sono nulli, semmai si spende per condizionare il gioco democratico pubblico, si compra la politica (la storia degli Stati Uniti di Reagan e post-reaganiani fino al crack del 2007 è eloquente). Mai la democrazia può essere considerato un bene irreversibilmente acquisito, una conquista indiscutibile e necessariamente progressiva.

Meno che mai le democrazie riducono necessariamente le diseguaglianze, cioè compiono lo scopo per cui sono sorte: è accaduto il contrario. Dobbiamo educarci a valutare i molteplici e mutevoli aspetti della «qualità della democrazia», anche in confronto alla misurazione delle diseguaglianze, delle opportunità e al senso, alle finalità dei processi economici.

Quale ripresa economica, quanta forza creativa italiana, quante eccellenze, quanta imprenditorialità diffusa servirebbero per colmare questi enormi squilibri d’efficacia democratica a nostro svantaggio? Efficacia che deve avere anche una valutazione di «rendimento sociale», di come serva a produrre regole e surplus per diminuire le diseguaglianze e per garantire le generazioni future secondo un’etica della responsabilità. Che altro deve accadere per convincere a svoltare? Se restiamo confinati nell’arretratezza del nostro stato, nel nostro provincialismo, immobili e inconcludenti, prima abbagliati dal consumismo egemone poi disorientati nella crisi, scegliamo di far precipitare ogni squilibrio, procediamo per esaurimento scorte, generiamo antipolitica, non costruiamo il futuro. Perdiamo il motivo della definizione del campo «sinistra».
Allora non dobbiamo avere paura di istituzioni e di partiti capaci di decidere. Anzi, dobbiamo imparare a decidere, a scegliere. Dobbiamo scrollarci definitivamente di dosso le vecchie abitudini e rinnovare, rigenerare e rilegittimare un’intera classe dirigente, non solo quella politica, dimostrare e rivendicare qualità, merito, in una dinamica nuova, politica e statuale, civile ed economico-sociale. Come si è già visto, ciò dà un segnale forte, atteso, che può portare a superare o a rompere anche le barriere invisibili ma tenacissime che in Italia per vent’anni hanno separato due bacini elettorali, non per caso, rendendo sopravalutate le marginalità o alimentando le anomalie. Lo si voglia o no, questo è il vero banco di prova anche per superare l’opacità dei poteri, i condizionamenti esterni, il populismo e la personalizzazione politica patologica – con le sue raccapriccianti manifestazioni, riviste in «Mafia Capitale» o in qualche primaria – esasperati in una permanente emergenza.
Siamo alla prova.

Diciamo la verità e proviamoci davvero.
Credo che il presidente Mattarella abbia ogni strumento per valutare, dall’alto del suo compito di garante della Costituzione, la complessità dell’intreccio fra le riforme che servono e per assicurarne uno sviluppo sì democratico, ma nel senso dell’evoluzione della democrazia (e della costruzione democratica dell’Unione europea), proseguendo la traccia del suo predecessore e nella transizione post-berlusconiana che si è aperta.
Oggi due temi sono stati ben impostati per l’iniziativa di Matteo Renzi che finalmente gli ha dato centralità e priorità: la riforma costituzionale del parlamento e la riforma della legge elettorale. Un terzo, non meno importante, si sta imponendo con cambiamenti concreti per il sistema giustizia.
Si possono migliorare ancora le decisioni del parlamento per il superamento del bicameralismo paritario, con il monocameralismo legislativo e il senato delle autonomie, e per l’affermazione di una legge elettorale con doppio turno e premio alla lista. Ma innanzitutto direi che queste vanno difese dal rischio di arretramenti o sabotaggi di chi, esterno alla maggioranza di governo, si sentisse sconfitto nella partita per il Quirinale o emarginato. Si deve mantenere un’ampia capacità d’interlocuzione e continuare a dire che queste riforme si fanno con tutti i soggetti che sono disponibili al confronto e si deve portare avanti uno schietto chiarimento di obiettivi e metodi nel Pd.

 

Non sono accettabili le semplificazioni e le accuse indimostrabili, che riecheggiano quelle dei populisti che vorrebbero proliferare nella palude immobile – M5s e Lega sommano ancora il 30 per cento dei consensi –, che insinuano un «dubbio di democrazia» per le riforme in cantiere, fino al punto di mettere in discussione la regola di maggioranza nelle decisioni politiche di un gruppo parlamentare o degli organi di partito. Si deve chiarire, dunque, non per l’arroganza di una maggioranza ma per la verità e per la coerenza di un disegno politico che non può essere invece sfuocato, che deve camminare in un paese sfinito cha ha bisogno di speranze e slanci. La tradizione di cultura istituzionale innovatrice della sinistra riformista, quella che a mio parere serve anche a dare ragione di una sconfitta, ora, svolta con successo la pratica-Quirinale, deve riemergere sugli arretramenti. Almeno, c’è da sperarlo. Mentre sarà facile prendere atto di come i fatti hanno smentito le dietrologie sul nascente «partito del Nazareno».
Mettersi in gioco vuol dire superare ogni logica di autoconservazione e anche rompere barriere culturali inattuali, far convivere e cooperare linguaggi nuovi.

 

Al Pd tocca questo compito e oggi, quando i cambiamenti hanno velocità vertiginosa, può svolgerlo in condizioni che non per caso sono assai diverse da quelle della Grecia o della Spagna, dove i soggetti politici storici della sinistra sono diventati marginali o rischiano d’essere spiazzati. Questa differenza è una risorsa, che dovrebbe indurre a fare cambiamenti radicali anche gli attori dell’«intermediazione corporativa»: il galleggiamento, per altro, è impossibile. E dunque anche i corpi intermedi oggi devono avere una missione diversa. Devono mettersi a disposizione, non di un leader o di un altro, o dei partiti, ma di una dinamica istituzionale e sociale nuova. Ciò implica discontinuità, confronti difficili, che per altro i grandi sindacati, prendendo questi ad esempio, hanno conosciuto nella loro storia: riformismo verso massimalismo e estremismo. Non esistono scorciatoie per rinnovare e recuperare una missione autonoma di rappresentanza fondamentale per affermare i diritti dei più deboli nel cambiamento.
Quanto alle riforme istituzionali, di sistema, ci sono tre temi che meritano un’attenzione nuova e risposte in tempi serrati.
La riforma dello stato, delle sue strutture. L’abbattimento delle barriere burocratiche, che sono una causa principale del declino italiano, ma che in un ambito ben più vasto rappresentano soprattutto una della manifestazioni della crisi delle democrazie e della politica. Il riequilibrio dell’intervento pubblico che s’impone, visti i fallimenti che si misurano e le possibilità nuove che possono darsi. La rigenerazione del lavoro, secondo merito e risultati, nelle amministrazioni pubbliche.
L’urgenza di creare un equilibrio nuovo fra stato, regioni e comuni.  Si deve superare la fase caotica che oggi si subisce, con gli squilibri e le ingiustizie distributive che provoca, proponendo un riordino, con la riforma del Titolo V della Costituzione, con un disegno riformatore e autoriformatore organico, che dia alle autonomie locali la possibilità di esprimere attivamente la rappresentanza e i compiti che la Costituzione garantisce e le potenzialità positive per la crescita economica.

 


La necessità di una legge che, traducendo l’articolo 49 della Costituzione, stabilisca l’obbligo per i partiti politici di darsi regole democratiche interne di funzionamento. L’emendamento approvato dal Senato a larghissima maggioranza che obbliga i partiti a presentare lo statuto per presentarsi alle elezioni dà un’indicazione di sensibilità. Il dibattito sull’evoluzione del modello di partito, che si è riaperto fra gli studiosi e nel Pd, che è in corso nei partiti del socialismo europeo, può portare ad altre decisioni importanti. E’ bene che si sviluppi.
Marco Filippeschi, Sindaco di Pisa
 

Fonte: Marco Filippeschi, Sindaco di Pisa
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