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L'articolo di oggi non poteva non far riferimento alla festa del SS. Crocifisso che Pontasserchio si appresta a celebrare, il 28 aprile.Da quella ricorrenza è nata la Fiera del 28, che poi da diversi anni si è trasformata in Agrifiera, pronta ad essere inaugurata il 19 aprile per aprire i battenti sabato 20.La vicenda che viene narrata, con il riferimento al miracolo del SS. Crocifisso, riguarda la diatriba sorta tra parroci per il possesso di una campana alla fine del '700, originata dalla "dismissione" delle due vecchie chiese di Vecchializia. 

. . . non discuto. Voi riformisti fate il vostro cammino .....
. . . l'area di centro. Vero!
Succede quando alla .....
. . . ipotetica, assurda e illogica. L'unica cosa .....
. . . leggo:
Bardi (c. d) 56% e rotti
Marrese ( c. .....
per pubblicare scrivere a: spaziodonnarubr@gmail.com
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Di Gavia
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di Michelle Rose Reardon a cura di Giampiero Mazzini
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di Mollica's
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Di Siciliainprogress
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Se oltre a combattere
quotidianamente
Con mille problematiche
legate alla salute
al reddito
al lavoro
alla burocrazia
al ladrocinio
alla frode
alla .....
Oggi è venuto a mancare all’affetto di tutti coloro che lo conoscevano Renato Moncini, disegnatore della Nasa , pittore e artista per passione. .....
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Angiò, uomo d'acqua.

20/12/2016 - 17:06

Angelo Bertuccelli era alto da terra cinque palmi e sette dita; questa meschina statura fu cagione di un lungo martirio e della sua morte medesima. La testa d’Angiò poteva, però, tanto era altera, attagliarsi sul tronco di un gigante: il naso, sagomato a falcetto e di natura segaligna, segno manifesto d’uomo aggressivo e pervicace, pareva un pennato di rota, il mento arricciato, s’ammusava col naso, la bocca stretta nella morsa sgusciava la parte carnosa. Il collo corto e taurino, di quelli che segnano i colpi, foderato di pelle screpolata dalla salsedine, s’ergeva diritto come un ramo di sorbo. La testa, dura come un macigno, inarcandosi, sgallava il gargherozzolo saldo come un nocciolo di pesca. Tutto il viso del nano era fiorito di ciccioli rossi come i bargigli del tacchino, gli occhi rotondi e lustri, sospettosi come quelli della faina, tenevano in sott’ordine gli orecchi dritti come quelli di un coniglio. Ogni poco il nano ristava dal passo e girava su sé stesso contorcendosi come il cane che vuol mordersi la coda, si stecchiva, folgorava le luminelle, soffiava, si ergeva come una rupe e bramiva: — Can di risto.
Il cappello alla peona, tra botte, colpi, strizzoni, affuffignamenti, rincalcate, s’era conformato agli sbalzi del carattere impetuoso d’Angiò, la sagoma era quella del Passatore, con una botta di sghimbescio sul chiucco e una strinta alla vagera; sul fiocco attorcinato a cavestro, Angiò ci teneva piantato uno stuzzicadenti.
Nessuno poteva fissare in viso il nano senza essere divorato da un’occhiata di rapina; dopo quel baleno Angiò faceva pernio del torso sulle anche, dava una sverrlnata e si poneva in posizione d’assalto, colle braccia aperte a forcone. Stregato a quel modo, con la testa ritta come un gallo, scrutava l’incauto fino a che non avesse scantonato.
— Non mi morse mai un cane che non mi medicassi col suo pelo.
Siccome il nano dava sopr’occhio a tutti, lo si vedeva, fermo a quel modo, su tutte le cantonate. Per traversare il paese, che era largo mezzo miglio, Angiò ci metteva tutta la mattina.
Per questa arroganza il nano fu ammiccato dai ragazzi che si divertivano a pedinarlo e si divagavano a vederlo in atteggiamento da gigante. Angiò, sopraffatto dall’ira, non si accorgeva della sturma dei marafei che appena lo sbirciavano da lontano gli urlavano:
— A te uto la lacca.
— Puzzi che accarogni.
— Naso a scuretto, se caschi in terra aguzzi il pietrame.
— Matti là e loro via.
— Tappo di botte.
— Guasta generazioni.
Quando Angiò s’ammascò che quelle lanciate eran dlrette al suo costato, si accese in viso e si sentì le fiamme in tutto il sangue:
— Oh galeotti di nidio! V’attacco la pelle a un gancio, candi rlsto, au, au, au; — e, abbaiando si dette a inseguire i ragazzi i quali, spauriti, si sparpagliarono per le case.
— Ne faccio tonnina.
Nella convulsione, col tremito addosso, il cappello gli cascò sul viso, egli lo prese, lo sbacchiò in terra, lo calciò, poi cosi pesticciato, se lo ripose in capo e passò via come uno spirltato.
L’indomani, per l’accaduto, il nano aveva dietro cli sé tutti i ragazzi del paese.
— Beo dl fogna.
— Ciotta di bufalo.
— Fegatino.
— Gerusalemme in coccoroni.
— Gonfietto.
— Pinocchio spada.
— Acchiappamosche.
— Aggomitolafumo.
Angiò, che soltanto a veder la ciurmaglia era stato preso dal convulso, a quelle sbeffeggiature cominciò a scricchiolar l’ossame e a sbavare, si chinò, raccolse una selce e Ia rose coi denti, trasse di tasca un coltello catalano, l’apri, ebbro ne leccò la lama. Quando fe’ l’atto d’avventarsi s’accorse che tutta Ia ragazzaglia era sparita. Allora gittò il coltello in terra, con tutta la sua forza, e ve Io immerse fino al manico, s’aggomitolò intorno all’arma e pianse dirotte lacrime.


(Angiò nella sua tragica vita di patimenti fisici e morali, incontra un personaggio che lo solleva un poco dal suo misero stato. Inutile dire che questa è una tragedia, non un semplice romanzo di vita marinaresca viareggina.)


Sulla gettata del molo ambulava di continuo un veterano dell’Oceano dal viso asprito di barba che guardava a chius’occhi il mare nella lontananza. II veterano dell’Oceano era tant’alto che i ragazzi, quando lo avvistavano, gridavano estatici: — Ecco il gigante, ecco il gigante!
Il gigante si chiamava Fello. Fello era l’uomo più alto del paese. Fello era buono e temerario: quando non suonava a martello l’ora del coraggio, Fello apriva il suo cuore, largo come una via maestra, e scherzava con i ragazzi. Ma se il mare rompeva al largo travolgendo uomini e barche, e la gente domandava aiuto, era lui il primo che si buttava a picco dall’ultima gettata del molo e faceva come il delfino arco sull’onde che la testa l’ingavonava al fondo. Era sempre Fello che, come il cane mastino, riportava a riva stretta tra i denti la cima della salvazione.
— Pare il Marzocco che è fora al porto di Livorno — urlava dalla calata Angiò quando vedeva Fello con i capelli e la barba accercinati dal vento di libeccio.
— Il mare ci picchia e ci rompe. È di macigno ferrato. È come il Marzocco. Beato chi è nelle sue grazie. Tristi e guai per chi l’incita.
Fello leggeva nelle voltate del cielo la direzione dei venti. Quando qualche tempesta rompeva al largo e i fulmini si diacciavano nell’acque mosse, era Fello che presagiva dove il fortunale si sarebbe spento. Tutti anche i più marini l’ascoltavano senza far verbo perché Fello su mille non ne aveva fallita una.
— È  un profeta! — diceva Angiò estasiato. — Sentite  prima Fello avanti d’incimentarvi coll’Oceano. Ne sa più d’un baccelliere di Salamanca.
—— Caro spacca-porte di ferro — diceva un giorno Fello ad Angiò —— so che di te non han modo né  verso né bestie né cristiani. Da che tu sei sbarcato dal Dedalo so che ti sei incimentato con tutto il paese. Sei diventato come il re della foresta: O leone, mi dici che sanguaccio hai nelle vene? O drago, O spacca—montagne!
— Vedi Fello, —rispose il nano — eppur saprai che il Ferrrone Angiò ben che abbia proibito il cazzotto, pure non noiò mai nimo. Ma can di risto, ricordati Fello, che ogni serpe ha il su’ veleno, eppur conosci il dittaggio del Tasso: “Nessun di voi sia fello” Non Fello te, ma codardo egli intende dire.
— Ma tu che hai la nerbatura d’acciaio, — riprendeva Fello
— tu che strangoleresti con la tua forza anche il lupo mannaro, tu che hai proibito il cazzoto, tu che ti batteresti anche con Leonzio, il fratello della Morte, tu...
Angiò, mentre Fello così proverbiava, si rimboccava le maniche della giubba, scompannava il panciotto e annodando Ii pugni faceva torchio della nerbatura, così gli si inturgidivano le vene di sangue peso e paonazzo, rassodiva i muscoli, aggruppava i tendini.
— Vedi Fello, quel che dici e Vangelo scritto — le braccia del nano in forza davano in fuori la muscolatura del torace e il collo s’annodava di gruppi e gli occhi sfavillavano.
— Mi sentirei di strozzarci il Drago. Vedi, se ne avessi qui un requestro, sarei capace di far piovere sul paese macine di molino e camallarle come pennecchi di stoppa. Ma quando i galeotti di nido mi sbeffano, sputo veleno come il serpente Arlecchino. E gli occhi d’Angiò friggevano sangue e la bocca schizzava bava:
”Nessuno di voi sia fello”
codardo intendo dire! . ..
— Mi dici, o Ferrone, ma dai in mattia — e Fello rabboniva Angiò palpeggiandolo come un cavallo, ma il Ferrone, piegandosi in due metteva le labbra a fior d’acqua e mugliava come il bove marino:
— Nessun di voi sia fello.. Codardo, intendo dire!
— Su, lupo d’Ircania — urlava Fello.

 

 
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15/1/2017 - 12:51

AUTORE:
Andrea

Grande Viani