L'analisi del nuovo articolo di Franco Gabbani si sposta questa volta nel mondo di un associazionismo antesignano, le confraternite, necessarie per togliere dall'isolamento e dal mutismo le popolazioni delle campagne, anche se basate esclusivamente sui pricipi della religione.
E d'altra parte, le confraternite, sia pur "laiche", erano sottoposte alla guida del parroco.Sono state comunque i primi strumenti non solo di carità per i più bisognosi, ma soprattutto le prime esperienze di protezione sociale verso contadini ed operai.
Il fiume non era solo una riserva di pesce, ma anche un luogo di divertimento.
Vicino al ponte dell'Aurelia, poche decine di metri a monte, dalla parte di Migliarino, c'erano diversi pioppi che crescevano in diagonale dalla sponda, facendo con l'acqua un angolo di circa 45°. Erano alberi alti e robusti, vegetati rapidamente con le radici quasi a contatto con l'acqua, coi rami più alti distanti parecchi metri dalla riva e una perpendicolare dall'acqua di 7 -8 metri.
Una mattina rubai a mio nonno una robusta fune di canapa, grossa e lunghissima e la assicurai a uno dei rami più alti. Al capo libero feci due o tre nodi, perché vi fosse una buona presa e usai la corda come fosse una liana e io Tarzan.
La sponda era alta sull'acqua e così potei avere una buona spinta. Arrivato al limite dell'oscillazione, nel brevissimo intervallo di stallo prima che vi fosse un ritorno, mi lasciai andare e, sgambettando in aria, feci il più meraviglioso dei tuffi. Risalii, accorciai la corda perché nell'andare in avanti non avevo tenuto conto della mia lunghezza a braccia in aria e avevo strusciato i piedi nell'acqua, misi un traversino di legno, tipo trapezio, per tenersi meglio e via un nuovo volo.
Era veramente bellissimo essere spinti in avanti con forza e, lasciata la fune, fare un altro scatto che faceva arrivare anche a venti metri dalla riva, senza pericolo di urtare il fondo dopo il tuffo perché lì l'acqua era molto profonda. Per aumentare la spinta imparai, durante la prima giornata, ad andare più indietro possibile o addirittura partire da un punto più alto, era una cassetta di patate, come pure a non fare i soliti tuffi di culo, a seggiolina, ma scattare con i piedi in su, avvitarsi ed entrare nell'acqua di testa. La velocità dello slancio era così forte che, il più delle volte, non si poteva correggere la traiettoria per l'inerzia ed allora erano panciate e schienate e la sera ero tutto rosso e dolorante dagli schiaffi sull'acqua.
Arrivarono gli altri ragazzi e poi altri ancora, poi i più grandi tanto che dovevamo litigare per poter fare un tuffo ogni tanto e far la coda addirittura. Si facevano tuffi in continuazione, anche troppo frequenti, a tal punto che non era ancora riemerso il primo e già il secondo era in volo, finché uno cascò diritto su Antonio della Lola che usciva dall'acqua e col calcagno gli prese in pieno la bocca rompendogli le labbra a contrasto con i denti.
Quell'incidente calmò un poco la corsa ai tuffi e contribuì a questa decisione la faccia che venne alla Lolina. Le labbra gonfie erano più pronunciate del naso, gli zigomi chiudevano quasi gli occhi, il gonfiore prese presto una colorazione rosso¬blu¬nera che ci preoccupò e zittì finché il ragazzo che avevamo tirato su e messo e sedere disse:
"Bi sono fatto bale".
La paura ci passò più velocemente di come era venuta pensando alle paste che non avrebbe potuto mangiare per un po' e alle ragazze che avrebbero riso di quella faccia.
Nei pomeriggi estivi, nei momenti di piena, era così numerosa la gente a fare il bagno in quell'insolito modo che sull'Aurelia si fermavano le macchine a vedere quello spettacolo. File di auto con la gente alla spalletta del ponte e noi allora a fare ancora di più gli scemi. Tuffi di traverso, sottosopra, due insieme, Vincenzo che si tuffava sempre vestito, Lamberto che grasso com'era faceva scricchiolare l'albero, Fabio, nato d'un cane, secco e scattante, arriva a mezzo Serchio, e tutti che cercavano di non ripetere tuffi già fatti.
Una volta vennero a vedere i tuffi, dalla riva, dei bambini e fra loro c'erano i gemelli Astolfo e Giovanni. Con noi c'era Pippo che aveva un dente malato ed era rimasto vestito perché non poteva bagnarsi. I due ragazzini erano invogliati di provare un volettino e Pippo faceva vedere loro ogni tanto come sarebbe stato bello fare un'andata e ritorno, solo per fare una veloce passata sull'acqua, senza tuffo.
Noi sapevamo per esperienza che se uno non si tuffava e ritornava ancora attaccato alla fune, quando riarrivava era quasi sempre di spalle, a velocità minore, non nello stesso punto di terreno pari e quindi era molto difficile restare in equilibrio. Se poi c'era un attimo di incertezza nel lasciare la corda o qualcuno ti dava una leggera spintarella, si doveva fare per forza un secondo volo con la velocità sempre più ridotta e con il secondo ritorno dove non si toccavano più i piedi e allora una terza passata e via di seguito, finché non si rimaneva appesi e fermi sull'acqua, e…. bagno forzato!
Pippo fece di nuovo il suo bravo voletto dimostrativo staccandosi appena arrivato sulla sponda, noi agguantammo la fune che scappava con una lunga canna con un uncino e, anche senza tante ulteriori insistenze, uno dei gemelli si accinse a provare l'ebbrezza del salto. Successe quello che noi speravamo, Giovanni rimase attaccato più del previsto e dopo un po' cominciò a gridare:
"Nini, aiuto!"
"Nini resisti", rispondeva Astolfo.
"Nini come faccio a ritornare?"
"Nini ti salvo io !"
"Nini non ce la faccio più!"
"Nini, eccomi",
e l'altro gemello spiccò un gran salto per ricongiungersi al fratello aggrappandosi alla vita di quello appeso.
Vi fu un disperato "ninio" e poi i due sventurati, persa la presa, precipitarono nell'acqua completamente vestiti, mentre noi disgraziati ci spanciavamo dalle risate.
I gemelli erano figli di quel tale che, quando era giovane e fidanzato, in una notte di tempesta della serata dedicata a “fare all’amore”, lasciò la casa della futura moglie e andò a dire ai propri genitori, che abitavano a più di dieci chilometri, che quella sera non sarebbe tornato a casa: "perché‚ pioveva".
Successe poi che Mario di Pipetta, infastidito dal fatto che nell'attesa del proprio tuffo ognuno di noi si sentiva in dovere di mangiare una pigna d'uva dal campo che era proprio alle spalle dell'albero dei tuffi, una notte tagliò il ramo, fece sparire la fune e con la frutta terminò anche la stagione dei "tuffi con la fune".