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L'articolo di oggi non poteva non far riferimento alla festa del SS. Crocifisso che Pontasserchio si appresta a celebrare, il 28 aprile.Da quella ricorrenza è nata la Fiera del 28, che poi da diversi anni si è trasformata in Agrifiera, pronta ad essere inaugurata il 19 aprile per aprire i battenti sabato 20.La vicenda che viene narrata, con il riferimento al miracolo del SS. Crocifisso, riguarda la diatriba sorta tra parroci per il possesso di una campana alla fine del '700, originata dalla "dismissione" delle due vecchie chiese di Vecchializia. 

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Pisa, 17 marzo
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Comune di Vecchiano
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Lei non è "abbastanzina informato" si informi chi .....
. . . è che Macron vuole Lagarde a capo della commissione .....
"250 giorni dall’apertura del Giubileo 2025: le .....
. . . se è favorevole anche Feltri allora sto zitto. .....
per pubblicare scrivere a: spaziodonnarubr@gmail.com
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Colori u n altra rosa
Una altra primavera
Per ringraziarti amore
Compagna di una vita
Un fiore dal Cielo

Aspetto ogni sera
I l tuo ritorno a casa
Per .....
Oggi è venuto a mancare all’affetto di tutti coloro che lo conoscevano Renato Moncini, disegnatore della Nasa , pittore e artista per passione. .....
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Marino e la capra

4/2/2017 - 19:17

Mio nonno Marino aveva sempre lavorato sul fiume, prima come cavatore di rena, poi come barcaiolo al soldo di ricchi cacciatori che volevano battere il Serchio senza stancarsi nel remare. Partivano all'alba ed arrivavano anche fino alla foce, sparando a conigli sulle rive, ad uccelli nell'acqua, a fagiani in volo e la sera tornavano ai ponti carichi di selvaggina.
Mio padre a quei tempi era piccolo e faceva il lavoro dei cani, correndo a raccogliere la preda e sperando che qualche "signore" avesse portata una buona colazione e ne potesse rimanere un po' anche per lui.
Erano tempi in cui si contava a centesimi e tutti soffrivano la fame. In casa di mio nonno erano in sette, due genitori e cinque figli e dove non arrivava il soldo del padrone, ci pensava il Serchio con le sue ricchezze.
Reti ne potevano comprare poche o nessuna e allora le mani sopperivano alla mancanza di altri mezzi. Con le mani e un rocchetto di filo si costruivano pezzi di tramagli, bertibelli, bilancine, retine; con le mani ed un coltello e qualche generosa canna, mai mancata sulle ripe, cesti e nasse; con le mani e una forchetta si potevano anche prendere le pacifiche e lente lamprede che sotto i ponti si divertivano a ciucciare qualsiasi cosa, perfino i sassi.
Pesce a colazione, pesce a cena e a pranzo, ma non sempre, perché c'era da lavorare anche un poco di terra. Quando c'erano le cacciate qualche coniglio impallinato, misteriosamente, spariva nei macchioni:
"Eppure mi sembra di averlo preso bene!"
"Si vede che non bruciavano bene i pallini e ora forse morirà chissà dove e lo mangerà qualche volpe."
Quando poi la notte mio padre, correndo scalzo al buio sull'argine, riusciva a ritrovare il luogo dove il giorno, non visto, aveva sotterrato il coniglio fantasma, se nel frattempo qualche animalaccio non lo aveva già scovato scavato e sbafato, allora erano polentate a non finire, nel senso di cercare davvero di non finire la carne perché doveva bastare per più giorni, visto che per insaporire le "pallette" ne bastava un pezzettino e un po' di sugo.
Per mio padre la carestia finì quando entrò a lavorare come guardiano di cani per la regina Elena in San Rossore.
I regnanti lessavano manzi e polli, bevevano una tazza di brodino e la carne veniva data ai cani.
Siccome i cani sono animali che appartengono alla famiglia delle bestie e queste, per essere tali, devono essere trattate male mangiare poco e a volte anche digiunare, allora, secondo la filosofia o meglio la fame, mio padre per non far torto a nessuno portava via loro pranzo e cena lasciando solo qualche ossetto ciucciato cosicché‚ ben presto, prese il nome di Bombolino.
Misteri dei soprannomi.
Tutto finì quando il re decise di assumere definitivamente tutti coloro che avevano lavorato per la tenuta, ma a condizione che fossero più alti di lui e non ci voleva certo molto a superare il suo metro e sessanta.
Mio padre fu licenziato e dovette tornarsene al Serchio.
Confinante con la riserva reale vi era allora la tenuta della contessa Dal Borgo, proprietà che partiva dall'Aurelia ed arrivava fino al Marmo, delimitata a nord dal Serchio e a sud da Fiume morto. Sul Serchio la nobildonna aveva fatto costruire uno chalet ed un retone per andarsi a divertire nel veder pescare e aveva dato l'incarico di tenere efficiente l'impianto a mio nonno. Il retone era circa a un chilometro sotto i ponti ed era in un punto dove la riva scendeva a strapiombo sull'acqua con un salto di quattro o cinque metri. Il casotto era stato costruito sotto un gruppetto di alti pini e tutto intorno vi erano cespugli di lecci, rovi, qualche grossa quercia, moltissimi noci selvatici e, più lontano, campi di erba medica per fare foraggio alle bestie dei contadini che abitavano nel gruppetto di case del Marmo.
Mio nonno abbandonò la vecchia casa che si trovava sotto da Ugo, quasi sull'acqua, tanto che d'autunno o di primavera, per le piogge o per il disgelo, con il Serchio in piena erano molte le sere che dovevano andare tutti a dormire al piano di sopra e per tutti si intendono le sette persone della famiglia e la vacca da latte che aveva la stalla allagata.
La nuova casa al Marmo era invece di là dall'argine, un po' lontana dal paese, ma all'asciutto, vicina alla baracca da pesca. Per pescare dal retone che, essendo la riva alta, era stato costruito su un pontile che partiva al pari del terreno e finiva su una serie di lunghissimi pali incrociati piantati sul fondo del fiume, si usavano due burberini. Una volta tirata su la rete, si scendevano delle ripide scale di legno fino all'acqua dove c'era una barca per poter andare a togliere il pesce intrappolato in un codino.  Sopra il pontile, molto largo e lungo, c'era una pergola di vite che faceva delle piccolissime pigne di un uvetta verde ed aspra, ma molto fresco e, lì sotto, mio nonno ed i suoi amici giocavano a carte per intere giornate fumando la pipa e tirando su ogni tanto la rete, ma più per dovere che per vera passione.
Ormai la contessa, dopo che si era persa al gioco quasi l'intera tenuta e finiti gioielli e liquido, aveva abbandonato tutto. Non si vedeva più nessuno a reclamare pesce od altro, se non raramente qualche amico o parente che approfittavano del luogo solitario e selvaggio per venire a farsi delle gran mangiate di pesce arrosto e scolarsi damigiane di vino.
A proposito di damigiane mi ricordo che, quando andavo a trovare mio nonno al retone, ce ne era sempre una pronta sul tavolo con la gomma dentro come se dovesse essere infiascata da un momento all'altro, ma difficilmente prendeva d'aceto anche se stava aperta. Una mattina, mentre nessuno faceva caso a me, bevvi una bella sorsata di vino a digiuno e Dio solo sa quanto stetti male. Se ne accorse mio padre dopo un po' non vedendomi correre in su e in giù od arrampicarmi sugli alberi e dovette portarmi a casa in braccio, mentre mi contorcevo fra dolori atroci di pancia ed un sudore freddo da far paura mi bagnava tutto.
Quando la rete era un po' che pescava, veniva tolta, lavata e messa ad asciugare nel campo vicino alla baracca. Era una rete larga una ventina di metri, fatta con le maglie a scalare del sette, poi cinque, tre ed infine, al centro, una toppa dove  la larghezza era appena un centimetro o meno.
Quando il giorno seguente si andava per togliere la rete dal campo si aveva quasi sempre la sorpresa di trovare, impigliati per le zampe, merli, passeri ed anche qualche fagiano, che vi avevano camminato sopra finendovi poi imprigionati.
Una volta mio nonno, andando deciso a farsi un arrostino di uccelletti, rimase di stucco quando vide contorcersi sopra la rete una grande capra che, per liberarsi, con le corna peggiorava continuamente la situazione.
A parte il fatto che l'animale doveva essere per forza di qualcuno e non selvatico, non ci fu alcun desiderio di metterlo ai ferri come le altre prede, ma solo quello di fargli invece pagare caro il misfatto compiuto.
La rete era tutta in pezzi e già molto meno avrebbe fatto scoppiare la rabbia di mio nonno che, avendo un caratteraccio, si sfogò dapprima in uno smoccolìo da far paura, poi, ringhiando come era solito fare quando era arrabbiato e cioè parlando stringendo i denti, prese la capra per le corna e la coda, di peso, e:
"Naaata di ‘ane, farrrabutta troia, ma vedraai che ora ti paaago io!"
e così dicendo si avvicinò, tirandosi dietro la bestia e finendo di rompere l'ultimo pezzo di rete, alla riva del Serchio deciso a buttarci dentro la capra.
Arrivato alla sponda prese a dondolare avanti e indietro l'animale per dargli così una bella spinta tanto da buttarlo lontano nell'acqua fonda dove sarebbe affogato sicuramente e, quando credette di essere pronto, con un ultimo urlo dette l'ultima energica spinta tutto felice.
"Vai malideetta, affoga!"
e giù la capra che, dispettosa come solo lo sono quegli animali, aveva infilato all'ultimo momento un corno nella tasca dei pantaloni e mio nonno si ritrovò a rotolare nell'acqua con quella bestiaccia che si prese poi un morso al volo in un orecchio che, se l'avesse dato un animale ad un cristiano e non il contrario, ci sarebbe stato pericolo di un attacco di rabbia o di tetano.
Il tragico finale fu che la capra, non si sa come, riuscì a risalire la riva e sparire e mio nonno invece dovette chiamare aiuto perché non vi erano appigli di sorta per poter montare all'asciutto e quando alla fine arrivò Sveno in barca, ce ne furono anche per lui che era arrivato tardi e giù cappellate e moccoli per sfogarsi e anche un pestìo di piedi così forte che alla fine il barchetto dovette essere tirato in secco perché si erano allentate tutte le stoppe delle tavole. 

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