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L'articolo di oggi non poteva non far riferimento alla festa del SS. Crocifisso che Pontasserchio si appresta a celebrare, il 28 aprile.Da quella ricorrenza è nata la Fiera del 28, che poi da diversi anni si è trasformata in Agrifiera, pronta ad essere inaugurata il 19 aprile per aprire i battenti sabato 20.La vicenda che viene narrata, con il riferimento al miracolo del SS. Crocifisso, riguarda la diatriba sorta tra parroci per il possesso di una campana alla fine del '700, originata dalla "dismissione" delle due vecchie chiese di Vecchializia. 

. . . l'area di centro. Vero!
Succede quando alla .....
. . . ipotetica, assurda e illogica. L'unica cosa .....
. . . leggo:
Bardi (c. d) 56% e rotti
Marrese ( c. .....
. . . vuoi il solito disegnino?
IV con i 5* non ci .....
per pubblicare scrivere a: spaziodonnarubr@gmail.com
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Di Gavia
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di Michelle Rose Reardon a cura di Giampiero Mazzini
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di Mollica's
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Di Siciliainprogress
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Se oltre a combattere
quotidianamente
Con mille problematiche
legate alla salute
al reddito
al lavoro
alla burocrazia
al ladrocinio
alla frode
alla .....
Oggi è venuto a mancare all’affetto di tutti coloro che lo conoscevano Renato Moncini, disegnatore della Nasa , pittore e artista per passione. .....
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Dai ponti al mare: La mazzacchera

22/3/2022 - 9:04


LA MAZZACCHERA
 
 Pioveva.
Dopo la prima annusata alla strada polverosa, che mandava dopo i primi goccioloni ed anche per un po' oltre quel caratteristico odore che risvegliava chiocciole rane rospi e vermi, si annusava ancora per cercare di capire quanto durasse il temporale e già si pensava alla "torba".
Se la pioggia persisteva per un paio di giorni, oppure se il temporale veniva dalla Garfagnana, allora c'era la possibilità che il fango dei torrenti e la terra dei campi prospicienti il fiume, scaricati in Serchio, facessero intorbidire l'acqua tanto, a volte, da farla divenire rosso mattone.
Era quello il momento che le anguille aspettavano per cacciare non viste dalla preda e guidate dal loro straordinario olfatto.
Noi facevamo la spola fra casa e Serchio per vedere il cambiamento del colore dell'acqua, subito dopo la fine della pioggia e, al primo indizio di canne, frasche, erba trascinata dalla corrente, segno che l'acqua cresceva e arrivava quella nuova dei monti, partivamo alla ricerca dei "beci" per la mazzacchera.
I pesci che vivevano nel Serchio erano di varia forma, di varie specie, con varie abitudini e vari appetiti e gusti che andavano dai bachi ai vermi fino alle more di rovo. Veniva scavato il fondo dai muggini, veniva atteso l'insetto dal cielo dalle lasche, veniva rincorso il più piccolo dai ragni e non c'era niente che strisciasse, nuotasse o saltasse, che non fosse buono per il pranzo di qualche altro.
Un giorno sul mare, avendo finito i vermi, provai a mettere all'amo un pezzetto di carne secca che avevo nel panino e ci presi una trentina di crognoli.
Vi erano giornate nelle quali però c'era nei pesci disappetenza e disinteresse per qualsiasi esca venisse usata, si trattasse anche di robettine elaborate come vongole o vermi di importazione che stavano diventando di moda anche fra i pescatori di paese.
Ma niente poteva reggere il confronto con la “mazzacchera”.
La mazzacchera era la pesca più bella, più a contatto con l'acqua, col pesce, più amorosamente curata e studiata, più lunga, più serotina, più calma e più battagliosamente sofferta dall'uomo e dal pesce.
L'anguilla è furba, tenace e dura, peggio delle capre, testarda e potente, dolce e lasciva, guardinga e audace, ma la fame la tradisce. Darebbe la vita per un piatto di beci.
Da parte di chi pesca ci deve essere attaccamento allo sport praticato, rinuncia al timore che la terra ti possa insudiciare e infettare, che i vermi siano così schifosi, passione al freddo e al remo, resistenza di braccia e di chiappe.
Si cominciava già la mattina a preparare il rito della mazzacchera. I posti più battuti per la ricerca di vermi erano gli scoli delle cucine dietro le case, gli "acquai", dove la continua emissione d'acqua, fosse pure sporca di rigovernature che a quei tempi non erano cariche di detersivi, rendeva il terreno atto alla crescita della nostra migliore esca e sempre morbido da vangare. Ogni casa aveva la sua fossa di scolo che andava a perdersi in altre fosse e poi in canali poderali. Il problema era la più o meno disponibilità della massaia a farsi buttare all'aria il suo acquaio, poi dovevamo cercare una casa dove non vi abitasse un mazzaccheraio, perché altrimenti avremmo invaso la sua riserva di beci; poi dovevamo ancora scartare quelle case che avevano uno scolo sulla strada, perché non conveniva vangare sul ciglio dove passava continuamente gente che domandava, curiosava e poteva essere un segno che c'era la torba per i mazzaccherai più pigri, perché meno eravamo…. e meglio era.
Avendo dato l'assicurazione alla padrona di casa che dopo si sarebbe rimesso tutto a posto, perché altrimenti l'acqua ristagnante nelle vangate non pareggiate avrebbe dato cattivo odore, si cercava di rimediare un mezzo barattolo di beci.
Un altro luogo adatto alla ricerca erano le "pagliaia" intorno alle aie delle case dei contadini. Anche lì però nessuno era ben visto a far buche, ma con una conoscenza paterna o una vangata nascosta nell'ora del riposo pomeridiano, si potevano avere i nostri beci.
Questi, arrivati a casa, erano messi in una cassetta con la segatura perché nel barattolo, stando tutti insieme ammassati, avevano emesso un umore che li rendeva scivolosi e sarebbe stato difficile dar loro quella misera e poco onorevole morte.
Si cercava un filo robusto e fine fine come quello dei rocchetti di legno della Cantoni, uno stecco di scopa di saggina da usare come ago, incidendo con la punta di un coltellino l'estremità più grossa e facendo passare da questa cruna il filo lungo due o tre bracciate e poi, seduti su una seggiolina o una cassetta bassa rovesciata, si dava inizio alla seconda fase della mazzacchera.
La tecnica era di riempire il primo pezzo di filo fin dove arrivava il braccio allungato e usare per primo un becio grosso per inumidire bene il cammino. Arrivati al riempimento della metà del filo, si toglieva l'ago e si ricominciava con l'altro pezzo, facendo casomai scorrere i primi infilzati se uno aveva le braccia corte.
La scelta dei vermi doveva essere ben curata, prendendone uno grosso e uno piccolo, ma non troppo grosso perché non si rompesse sotto i denti dell'anguilla e neanche troppo piccolo perché non si sciupasse con l'attraversamento testa-coda del filo.
Attenzione poi a non lasciare troppo spazio tra i vermi, ma neanche stringerli troppo. Si univano infine i due capi del filo, ormai diventato un bel cordone di beci, e si avvolgeva in anelli prendendo l'indice e il mignolo della mano aperta come misura e supporto. Dopo aver fatto passare nel centro del mazzetto un pezzo di spago di circa 40 centimetri, si praticava un bel nodo Savoia, stringendo bene, e si aveva così la mazzacchera pronta.
Non c'è nessun'altra pesca che usa l'esca per darsi il nome.
A nessuno verrebbe mai in mente di partire da casa e dire agli amici :
"Vado al Serchio a pescare a bachini", oppure :
"vado al mare a pescare a ombrini", ma :
"Si va a pescare a mazzacchera" è detto bene.
"Dove vai a mazzacchera stasera ?"
"Ho fatto una mazzacchera che sembran due"
"Ho fatto una mazzacchera di beci di sugo"
La canna per la pesca doveva essere scelta bene: lunga due metri, non fine che svettasse, non grossa che non trasmettesse vibrazioni.
Lo spago doveva essere resistente all'acqua, alla trazione e al logorio. Si faceva sempre molto più lungo e si arrotolava alla cima della canna per avere una riserva nel caso si pescasse in acque fonde. All'altra estremità del filo si faceva un cappio per il mazzetto dei vermi e una derivazione per il piombo che doveva tenere tutto ben fermo a fondo, ma permettere alla mazzacchera di rimanere libera agli strattoni dati dall'anguilla durante il pasto.
Anche il piombo aveva una storia: grosso proporzionalmente alla corrente, più peso se più veloce, più leggero se più lenta, e fatto in modo che non offrisse appigli ad eventuali intoppi di frasche, pietre o altro, quindi conico, ma non con la superficie liscia, perché altrimenti sarebbe rotolato, ma con le facce battute dimodoché‚ a lavoro finito, sembrasse una piramidina allungata.
Il piombo era fatto a casa, colando la fusione in una forma di legno o di gesso, dal disegno originale e fra le urla di mia madre alla quale dava noia il puzzo del metallo fuso e la preoccupazione che il tegamino non reggesse il calore.
Poi serviva un giubbotto per ripararsi dal freddo che prendeva dopo il calare del sole perché la pesca a volte si protraeva fino a mezzanotte, un paio di stivali, due ombrelli, uno per un’imprevista pioggia e uno che doveva servire, rovesciato, da recipiente di raccolta, due belle fette di pane, una mela, una bottiglietta di vino e acqua e, dai dai, si poteva anche partire.
Attenzione alla mazzacchera, che so di persone che hanno fatto decine di chilometri, traversato fossi e macchie e avevano lasciato l'imbeciata a casa sul muretto !
Nemmeno a pensare di legare tutto prima della partenza, portava male, bisognava invece incartare bene in fogli gialli la mazzacchera, metterla con referenza, delicatamente, in un sacchetto o una scatoletta e solo arrivati al fiume si terminava il lungo rituale della prepesca.
Era ora. Consigli, pronostici, preparativi e scelte, ognuno ne aveva da dare convinto che gli altri non sapessero pescare e che poi, la mattina dopo, si sarebbe visto "chi era quello che sapeva"!
C'erano i solitari che si facevano una buca nella riva, fra le canne, a sedere per terra sopra un cuscino di foglie, con una canna infilata ritta nell'acqua dove appoggiare in bilico la mazzacchera e l'ombrello aperto al contrario vicino a loro, a pelo d'acqua, per buttarci dentro le prede, rischiando di scivolare, ma lontani dai soliti posti.
C'erano gli sfruttatori che andavano a corsa sui porti per le cee resistiti dall'inverno precedente per stare così all'asciutto, sul pari, con una cassetta per sedile e la lanterna a petrolio messa di lato e accesa solo quando era proprio buio da non arrivare a vedere neanche il calcio della canna a un palmo dal naso.
Gli altri che avevano la barca  potevano pescare vicino, nel mezzo, dove loro pareva, con un peso a poppa e uno a prua per tenere ben ferma la barca e la canna anche qui in bilico, ma sul parapetto, perché le anguille venivano buttate a pagliolo.
Scelta la posizione, il luogo, la canna, si provava il fondo e si posizionava la mazzacchera con il cimino vicinissimo al pelo dell'acqua perché fossero ben visibili le oscillazioni seppure lievi della trazione delle anguille che accorrevano al banchetto.
Le anguille, mangiando i vermi infilati, scuotevano energicamente la testa per staccare il boccone e facendo così tiravano il filo tenuto in trazione dal piombo e la cima della canna ammiccava come a dire "dai ci siamo"; era allora che bisognava prendere il calcio in mano, tirare lentamente su fino a far uscire la mazzacchera dall'acqua con l'anguilla ancora attaccata che lottava con i vermi e, con un ultimo veloce scatto ora, mettere tutto in barca o nell'ombrello, dove la sventurata finalmente si accorgeva del tranello, ma troppo tardi.
A volte invece, per rigettare alla svelta l'esca in acqua per una nuova pescata, si ributtava in Serchio l'anguilla di prima che non si era ancora accorta della manovra, presa com'era a mangiare quel bel boccone che non stava mai fermo e che era anche un po' filaccioso da rimanere fra i denti, ma tanto appetitoso.
Era questo il motivo della riuscita della pesca: il fatto che l'anguilla non lasciava l'imbeciata perché era naturale per lei che i vermi scappassero, più velocemente o meno, lei era la cacciatrice, e poi c'era anche il filo dentro che faceva un po' attaccare i denti.
Nell'attimo della tirata della canna, dopo l'accenno alla toccata, scoccava quello che faceva della mazzacchera la migliore pesca, o meglio, la migliore lotta fra uomo e pesce.
La mazzacchera era il mucchietto dei vermi:
"La mia mazzacchera è piu grossa della tua"
Era la preparazione e la pesca intera:
"Oggi si va a mazzacchera"
Era un mondo, una poesia, una storia, sudore, freddo, amore per il fiume, pesca, lotta, astuzia, tutto tranne la fortuna.
Oggi si usano come esche nelle varie pesche: muriddu che vengono da Cagliari, tremoline da Cannes, baconi da Venezia, e noi invece, prima, beci di sugo e di fossa, di pagliaio, fatti a mano, scavando ore ed ore, specialmente alla fine dell'estate quando la terra era secca ed i beci erano in fondo al fresco, fuori portata delle vanghe e non comprati in scatoline a decine nei vari negozi che ora sembra sappiano e facciano tutto loro.
Non canne super e più superleggere, ma canne di filata, prese a volte sul luogo di pesca, guardate, rimirate, soppesate e pulite e pareggiate con il coltello.
Quando si arrivava al punto di tirare su si vedeva allora il mazzaccheraio o quello che teneva i beci nell'acqua.
C'era un messaggio di vibrazioni, una trasmissione diretta fra anguilla-mazzacchera-filo-canna-polso e un muto dialogo che finiva o con la perdita di contatto per incomprensione o perché‚ una volta presa, l'anguilla non aveva più niente da dire.
Nella barca era un pesce, un animale da fare fritto o in umido, schifosamente scivoloso, ma nell'acqua era una forza, un cacciatore tuo pari, una massa di vita pronta a farsi beffe dei tuoi marchingegni e la lotta, per tirarla fuori da una parte e per restare dentro dall'altra, era fatta ad armi pari.
Appena in mano la canna ti diceva come era grossa l'anguilla (a volte credevi ci fosse un bestione invece ce ne erano due piccole insieme), poi se aveva o no voglia di mangiare e quindi di lottare, poi attenzione a non farle accorgere che era vicina al pelo dell'acqua, dandole un po' di spago, ma non troppo perché sennò, pensava lei: "che gusto c'è ?"
Arrivati a fior d'acqua la nostra ultima mossa era di non dare molto forte l'ultimo strattone perché le si levava il mangiare di bocca, ma neanche piano perché altrimenti l'anguilla si accorgeva del tranello e qui entrava in ballo anche Archimede che, se un'anguilla era di un etto e tirava con una forza di un chilo, nell'acqua pesava un grammo, mentre fuori, o mezza fuori, si riaveva il peso effettivo che gravava sul filino preso dai dentini e a volte, anche se l'anguilla non voleva lasciare la sua cena, si strappava o il filo o il dente e si perdeva tutto.
A quel punto, per reazione, la mazzacchera schizzava indietro e si andava anche a gambe in aria, oppure altre volte l'anguilla smetteva di tirare improvvisamente e tutta la forza messa dalla nostra parte faceva volare di là dalla barca il pesce e mio padre in questo caso allora diceva:
"Non ti preoccupare, la chiappi a ritorno!"
I pescatori sono bugiardi, si sa, a casa raccontano di averne presi tre chili e invece, sul luogo di pesca, di non vedere una lisca.
Anche qui si cercava di non fare sapere se toccavano o meno, ma a volte, tirando su per buttare l'anguilla in barca, il piombo batteva sul legno dei paglioli facendo rumore e allora si sentivano le voci dalle altre barche che dicevano:
"Toccano ?"
"No, sono maschi"
"Come no, se si sente battere il piombo!"
"Sì, ma sono io che provo il fondo e a te come va ?"
"Male, due o tre ogni tanto"
Stai sicuro che erano due o tre, ma chili!
Le barche con la torba uscivano e si mettevano a distanza l'una dall'altra, in posizioni che sembravano migliori all'uno o all'altro pescatore e, chi non aveva la barca, a riva con l'ombrello e tutti quei punti neri che si vedevano da lontano, fossero essi barche od ombrelli, a sera divenivano luci di torce, o candele, o lumi a petrolio, o a carburo, che si accendevano e spegnevano e le voci arrivavano da lontano nel silenzio della notte.
Gli amici che si erano divisi la sera per la pesca, ora si riunivano per fare il ritorno a casa insieme, le domande di come era andata si susseguivano per centinaia di metri e mio padre che diceva:
"Quello che urla ora è Natalino"
"Quest'altro è suo fratello Nicolino"
"Questo non lo conosco, ma mi sembra Togno Nero"
E c'erano tutti, amici e conoscenti, e nessuno tornava mai a mani vuote.
Le altre pesche potevano andare male, i pesci avere la luna, l'esca non essere quella buona, ma a mazzacchera si prendeva sempre qualcosa. Niente era lasciato al caso.
I vermi erano sani, il tempo perfetto, l'acqua pure, e la fortuna entrava nella pesca solo nella dimensione delle anguille, questo sì.
Potevamo prenderne un secchio di piccoline che se fossero state grosse come la mazzacchera sarebbero state trenta chili, oppure tutte belle, coi riflessi blu e verdi e le pance bianche, di "calata", che erano buone "stidionate", cioè alla brace infilate sullo spiedo.
Questa pesca durava finché era troppo freddo per stare fermi in Serchio senza potersi riscaldare neanche battendo i piedi, perché altrimenti ti avrebbero sentito fino in Garfagnana e si aspettava dicembre e gennaio per fare un'altra pesca alle sfortunatissime anguille.

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