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Il nuovo articolo di Franco Gabbani non riguarda un personaggio o un evento in particolare, ma esamina un aspetto sociale e lavorativo che, presente da molti secoli, ebbe grande sviluppo nell'800 ( fino all'inizio del '900), ma che fortunatamente terminò relativamente presto, grazie agli sviluppi economici e scientifici.

Si tratta del baliatico, un'attività spesso vista benevolmente, ma che è stata definita "calamità occupazionale"

. . . lo sai che lo diceva anche la mia. Però al .....
Bimbo lasciala sta la geografia, studia l'agiografia. .....
. . . niente, mi sa che bisogna riformare l' ISTAT. .....
. . . ci sono più i premi di una volta.
Quest'anno .....
per pubblicare scrivere a: spaziodonnarubr@gmail.com
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Incontrati per caso...
di Valdo Mori
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di Valdo Mori
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di Emanuele Cerullo
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Libero caro
mio dolce tesoro
più ti guardo, ti "esploro"
più sembri un capolavoro
Un'inesauribile fonte
di emozioni
una sorgente
un erogatore .....
Nel paese di Pontasserchio la circolazione è definita "centro abitato", quindi ci sono i 50km/ h max

Da dopo la Conad ci sono ancora i 50km/ h fino .....
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UN MONDO SCOMPARSO
La vita dei nostri contadini nell'800
di Franco Gabbani e Sandro Petri

24/7/2022 - 16:32


I precedenti articoli di questa seconda parte sono stati finora incentrati, come dai titoli comparsi, sulle figure del Padrone e del Parroco, i detentori del potere sociale ed economico, che avevano completa discrezionalità nel gestire la popolazione di lavoratori agricoli, gravata da quella che nei fatti era una vera e propria schiavitù.
E in un mondo che lentamente si liberava di tiranni e despoti, non sorprende che i primi a porsi il problema delle condizioni di vita dei contadini siano stati i governanti più illuminati, pur sempre re o principi, ma con una nuova mentalità in cui la servitù secolare  dei lavoratori della terra veniva considerata in realtà un danno per la società e il progresso, come scrisse il Granduca di Toscana.
E anche i progressi culturali e scientifici iniziavano a dare il loro contributo, dando maggior spazio alle conoscenze sulle condizioni igieniche e al ruolo dei medici condotti nell'affrontare le pessime condizioni di vita e le epidemie.
Ma per molto tempo non si vedranno gli effetti di questa nuova consapevolezza, destinata ad infrangersi contro l'avidità e l'oscurantismo dei grandi proprietari terrieri.

Sandro Petri



UN MONDO SCOMPARSO

La vita dei nostri contadini nell’800

Franco Gabbani

Dopo aver parlato del Padrone e del Parroco, ci soffermeremo sulla figura del contadino nell’800.
E’ bene dire subito che non è facile parlare dei contadini, uomini e donne che non ebbero voce, spesso considerati merce, come gli accessori del podere.
Uomini e donne che non ebbero gioventù, a lungo consumati dal lavoro e dalla fame, protagonisti muti di un mondo di miseria ormai scomparso.
Proverò a parlare di quel mondo partendo da lontano, da quando, alla fine del’700, Pietro Leopoldo d’Asburgo Lorena, Granduca di Toscana, aveva cercato di migliorare le condizioni dei contadini non solamente attraverso la politica delle allivellazioni1 ma anche cercando di modificare, senza riuscirci, i patti di mezzadria, gravosi e ingiusti per i mezzadri:
Il principe non accetta la servitù secolare dei lavoratori della terra: per lui non solo è disumana, ma, socialmente dannosa e di ostacolo al progresso del paese”.2
Lo scontro con i grandi proprietari terrieri si concluse, al contrario, con un inasprimento delle clausole del contratto di colonia.
Per offrire una visione più completa sulla realtà di quel mondo contadino, riporterò alcuni scritti di quel periodo. 

Gian Francesco Pagnini, uno dei più stretti collaboratori di Pietro Leopoldo, del contadino scriveva: 

è esposto al maggior rigore dell’inverno, al bollore quocente dell’estate, alla pioggia, et al vento: appena coperto da ruvidi e laceri panni, nutriti parcamente (…) Lontani dalla parrocchia, dal medico, dal cerusico3 e dagli spedali, isolati dalla società (…)
Allo spirar del vento, a una pioggia, a una brinata possono vedersi in un giorno, anzi in poche ore defraudati della mercede e frutto delle loro fatiche, che hanno aspettato e stentato la maggior parte dell’anno, per raccorre quel povero e scarso nutrimento, col quale poter vivere colle famiglie loro nell’anno avvenire.
Per fortuna loro e nostra, essi non sono coscienti delle loro reali condizioni.
Privi di soccorsi, aggravati di debiti a’ quali non son capaci di soddisfare, privi di forze, languenti, disanimati, scoraggiati dal vedere che la parte de’ frutti che raccolgono, anche nell’annate abbondanti, invece di servire per campargli, appena basta per pagare i debiti che hanno contratti4 (…).

Cosimo Ridolfi aveva descritto il mezzadro come un essere umano che:

bagna la terra del suo sudore, la feconda coi propri stenti; vi semina grano, si nutre poi di vecce e saggina; ne spreme il vino, e beve l’acquetta; ci frange l’olio e condisce la propria zuppa con vieto prosciutto; logora la sua vita senza goderne giammai, poiché il debito che lo perseguita ad onta d’un’incredibile frugalità gli toglie il conforto dell’indipendenza.5

I contadini pativano una assoluta mancanza di mezzi di sostentamento e le conseguenze della fame e della cattiva alimentazione colpivano soprattutto donne e bambini.
Alle donne spettavano i lavori di casa ma dovevano anche dare un aiuto nella coltivazione della terra: la fatica che si accompagnava con uno scarso nutrimento era causa di numerosissimi aborti e della loro alta mortalità.
A questo tragico quadro si aggiungevano fattori di eguale (se non maggiore) gravità: lo stato delle abitazioni, la situazione igienica e la qualità dell’aria.
Agli inizi dell’Ottocento molti degli alloggi delle famiglie coloniche erano ancora in capanne: il padrone preferiva spendere per le terre del podere piuttosto che in abitazioni per i mezzadri.
Di solito le capanne erano due, una per gli animali da lavoro ed il maiale, l’altra per il colono e la sua famiglia: qui dormivano insieme uomini e donne, ammogliati e non, bambini e garzoni. Questa situazione creava, spesso all’interno della famiglia, spiacevoli inconvenienti che contrastavano con la moralità familiare.
Giuliana Biagioli riferisce, in proposito, che

nel podere Forcellone, a Migliarino, l’unico figlio maschio sposato del capofamiglia Tinagli morì lasciando la vedova con otto figli tra i quindici e i due anni.
In casa vivevano anche due fratelli celibi e al saldo dello stesso anno si osserva “E’ stato detto che provveda, prima che naschino degli inconvenienti, a una sua nuora, che ritiene in casa restata di recente vedova, che si è innamorata del cognato, il quale gli corrisponde, perciò uno dei due deve demigrare diversamente al futuro saldo sarà licenziata tutta la famiglia”. La vedova, Maria Domenica, sortì di casa per lo scandalo dell’amore col cognato, in casa entrò un’altra Maria Domenica (della famiglia colonica Del Corso), giovane scapestrata e insubordinata, rimasta incinta dell’altro cognato della vedova.6

Successivamente era stata la politica adottata dal governo fiorentino ad obbligare  i proprietari “per rendere le terre più cultivate e fruttifere (…) a fabbricare sopra li suoi beni una casa per habitatione di lavoratore”. Questo provvedimento generò movimenti migratori “di famiglie provenienti dalle comunità limitrofe di Filettole, Avane, Vecchiano e anche dalla lucchesia e dalla Maremma in direzione di Malaventre, la nuova terra da colonizzare”.7
Ma anche quando inizia il passaggio dalle capanne alle case, si tratta sempre di abitazioni umide, sudice e fatiscenti “di case di due stanze, una era la stanza per la famiglia e l’altra la stanza per la mucca o – per chi l’aveva – del maiale, che era a un passo dalla camera da letto o dalla cucina”.8
Va aggiunto che le case, quasi sempre, erano senza vetri alle finestre, i padroni, infatti, sostenevano che le stanze, con i vetri, sarebbero state meno fredde rendendo pigri i contadini. Questo aveva anche un suo lato positivo: la mancanza di vetri rendeva l’aria più respirabile considerando il sudicio delle stanze e l’avversione dei contadini a lavarsi.
Fra i due ambienti, quello per la famiglia e quello per gli animali, spesso non c’era separazione, l’aria era fetida ma i contadini e le loro famiglie non ci facevano caso, abituati com’erano a trascorrere nella stalla, per difendersi dal gelo dell’inverno, la maggior parte della giornata e le veglie serali: lì; stesi sulla paglia, stavano uomini, donne, bambini e animali respirando il fumo del letame.

Come ha scritto efficacemente Nuto Revelli:

Era la veglia la grande occasione degli incontri, il momento in cui la gente riusciva a conversare, a confrontarsi.
I giovani, con l’arrivo dell’inverno, con la stagione morta, incominciavano a girare come trottole, percorrendo magari ore di cammino per frequentare le stalle più ospitali, più allegre. (…)
Nelle stalle la disciplina era rigorosa, con i padri e le madri che fungevano da carabinieri, (…) ma il sangue era giovane, aveva le sue pretese e spesso qualcosa veniva concluso.
Ma i freni esistevano, e scattavano al momento giusto perché la paura era tremenda.
La ragazza che inciampava, che restava incinta, perdeva ogni reputazione, e non aveva molte scelte: o ricorreva alle solite praticone, o emigrava, o cercava il suicidio.
Le comunità erano spietate, erano severissime nei confronti delle “ragazze madri”.
Nella migliore delle ipotesi poteva trovare un vedovo che la sposasse.
Dai pulpiti i parroci infierivano, indicavano le “pecorelle smarrite” con tanto di nome e cognome. Era breve la strada fra la campagna povera e la prostituzione.9

Sulla situazione igienica e la salubrità dell’aria è difficile dare ragguagli dettagliati legati alla nostra zona. Ma che tipo di igiene poteva esserci all’interno di una realtà dove dominava lo sporco, dove persone e animali vivevano a stretto contatto, dove il letame era all’interno dell’abitazione stessa o collocato nelle vicinanze?
Inoltre la mancanza di acqua potabile e l’esposizione ad un’aria malsana favorivano l’infestare delle malattie, della malaria in particolare, soprattutto nelle aree, come quella del comune di Vecchiano, con pianure completamente impaludate.
Non a caso l’Ottocento fu segnato da tre ondate di epidemia di colera: nel 1835, nel 1854 e nel 1865.

Maggiori conoscenze di prima mano sulla situazione possiamo averle grazie ai medici condotti che nelle loro relazioni evidenzieranno le pessime condizioni di vita del mondo dei lavoratori delle campagne affinché ne fosse investita la classe dirigente e l’autorità di governo.
Quello dei contadini era un problema sociale che, in assenza di politiche adeguate, avrebbe potuto portare a disordini e rivolte.
Furono avviate delle inchieste, sulle condizioni sociali e sanitarie delle campagne e, dalle esposizioni dei relatori, risultò che: “il contadino resta confinato al di là della barriera dell’igiene: non si pettina né si lava, e la sua casa per fortuna non ha vetri alle finestre perché altrimenti l’aria vi sarebbe irrespirabile“. Ci sono poi gli altri problemi frutto della miseria: “analfabetismo, disgregazione sociale, emigrazione, abbandono della religione per reagire ad un clero oscurantista e reazionario”.
Venivano descritte le condizioni di vita di una popolazione agricola che contava, al censimento del 1881, circa 15 milioni di persone (5 milioni di uomini erano considerati veri e propri lavoratori, il resto era costituito da bambini donne e vecchi).
Figli avviati al lavoro in età ancora infantile.
Un mondo contadino dove i fanciulli della più tenera età (dall’età di 8, ma anche 6 anni) sono impiegati nel lavoro dei campi, nella pastorizia ma anche nel trasporto dei concimi, di terra, di pietre.
Insomma i figli di contadini non conoscevano l’età dell’infanzia.10
Erano le condizioni si estrema indigenza, la fame, che spingevano i genitori ad “affittare” i figli per assicurargli un pezzo di pane, liberandosi al tempo stesso di una bocca da sfamare.

Quanto alla situazione sanitaria, la popolazione delle campagne risultò la più esposta alle malattie, soprattutto epidemiche, per una legislazione sociale inadeguata e perché lo Stato investiva assai poco nella tutela della salute pubblica.
Le malattie come il tifo, il colera, gastroenterite si diffondevano per le pessime condizioni igieniche. La malaria, ancora nel 1880, colpiva numerosi comuni del regno per la mancanza di un adeguato programma di bonifica delle aree paludose.

Nonostante questo quadro desolante, prima dell’Unità la Toscana era comunque
uno degli Stati più stimati dall’opinione pubblica, proprio in ambito agricolo. 
Nella prima metà dell’800 l’agricoltura toscana era stata “illuminata” dal Meleto, l’azienda agraria di Cosimo Ridolfi, dove era stata messa in atto l’ordinata piantagione degli alberi “onde vada concorde con i buoni regolamenti delle acque”, si era operata la suddivisione delle terre in campi, ed era maturata la percezione che la moralità e l’attività del contadino erano quasi sempre frutto della diligenza del proprietario e che se il padrone desiderava i frutti del suo podere, doveva affezionarsi il contadino, soccorrerlo, istruirlo, premiarlo: in sostanza, egli doveva farselo amico.
L’istruzione, il sapere divennero lentamente una componente importante dell’attività produttiva che, come conseguenza, avrebbe dato terre meglio coltivate, prodotti meno costosi e contadini addestrati all’utilizzo delle nuove macchine11 .

Questo lento miglioramento è accompagnato da una significativa crescita della popolazione nelle campagne, a causa della diminuzione del tasso di mortalità, e dal fatto che quello di natalità è ancora molto elevato.
Le famiglie contadine si fanno più numerose e si rende, perciò, necessario che qualcuno dei più giovani vada a cercare fortuna altrove: si iniziano così i flussi migratori dalle campagne alla città.
Ma neanche questo fu sufficiente a rendere complessivamente sopportabile la vita di molti contadini e braccianti.
Disperati per essere quasi senza lavoro, attratti ad una vita migliore, molti di essi allora non cercarono più lavoro nelle città vicine e, da soli o con le loro famiglie, scelsero la via dell’emigrazione imbarcandosi per l’ America del Nord o del Sud.



1 Tuttavia i canoni di livello risultarono, nella maggior parte dei contratti, troppo alti per il contadino favorendo i latifondisti che aumentarono le loro proprietà.

2 Citato in: P. Bellucci, I Lorena in Toscana. Gli uomini e le opere. Edizione Medicea, Firenze 1984, pag. 70.

3 Persona che esercitava l’attività chirurgica esercitata (non sempre avendone i requisiti).

4 Citato in: P. Bellucci, I Lorena in Toscana. Gli uomini e le opere. Edizioni Medicea, Firenze 1984, pag. 68.

5 C. Ridolfi, Dei cosiddetti miglioramenti agrari, citato in: A. Prosperi, Un volgo disperso. Contadini d’Italia nell’Ottocento, Einaudi, Torino  2019, pag. 60.

6 G.  Biagioli, “Il capo di casa è un corbellone”. Il controllo padronale sulle famiglie mezzadrili nella Toscana dell’Ottocento, Le fattorie Salviati, “Società e Storia” n. 97, 2002, pagg. 514 – 515.

7 M. A. Giusti, L’età moderna, in: Il Fiume, La Campagna, Il Mare. Reperti Documenti Immagini per la storia di Vecchiano, a cura di O. Banti, G. Biagioli, S. Ducci, M. A. Giusti, R. Mazzanti, M. Pasquinucci, F. Redi, Bandecchi e Vivaldi, Pontedera 1988, pagg. 270-271..

8  A. Prosperi, Un volgo disperso. Contadini d’Italia nell’Ottocento, Einaudi, Torino 2019, pag. XVII.

9  N. Revelli, Il popolo che manca, Einaudi, Torino 2013, pag.17.

10 Mi rifaccio qui a: A. Prosperi, Un volgo disperso. Contadini d’Italia nell’Ottocento,  Einaudi, Torino 2019, pagg. 273 - 300.

11 Mi baso su: I. Imberciadori, Sulle origini dell’istruzione agricola in Toscana, “Economia e Storia”, 1 (1961), pagg. 40-67.

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