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Nei giorni 26-27-28 aprile verranno presentati manufatti in seta dipinta: Kimoni, stole e opere pittoriche tutte legate a temi pucciniani , alcune già esposte alla Fondazione Puccini Festival.Lo storico Caffè di Simo, un luogo  iconico nel cuore  di Lucca  in via Fillungo riapre, per tre mesi, dopo una decennale  chiusura, nel fine settimana per ospitare eventi, conferenze, incontri per il Centenario  di Puccini. 

. . . per questo neanche alle 5. 50 prima di colazione. .....
. . . alle nove dopocena non ciai (c'hai) da far altro? .....
. . . il plenipotenziario di Fi, Tajani, ha presentato .....
Ieri 19 Marzo ci ha lasciato un Vs. concittadino Renato .....
per pubblicare scrivere a: spaziodonnarubr@gmail.com
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Il sole nutre
col suo splendore
il croco il bucaneve
la margherita. . .
Il cuore
cancella il dolore
se alimentato dall'amore
essenza della vita
Quando .....
Oggi è venuto a mancare all’affetto di tutti coloro che lo conoscevano Renato Moncini, disegnatore della Nasa , pittore e artista per passione. .....
Tutto sulla famiglia, la mia: (sesta puntata)

19/10/2022 - 21:32




    
Elia: mia mamma. Secondogenita di cinque figli, viveva quei momenti di paura con l’incoscienza della gioventù. Non aveva ancora vent’anni quando la maestra di ricamo notò la precisione con cui portava avanti il suo lavoro e la fantasia con cui disegnava i fregi che riportava sulla stoffa. La scuola era a Camaiore all’interno di un convento di suore. Un giorno la Madre Superiora mandò a chiamare i suoi genitori: Giacomo e Gemma.
“Gesù Santissimo, che vorrà da noi la Madre?” disse mia nonna. Giacomo una mezza idea se l’era fatta. Il giorno dopo all’ora stabilita si presentarono al convento.
Vennero fatti accomodare in una grande stanza illuminata dal sole. Metà di una parete era coperta da una libreria in legno, di lato avevano sistemato il ritratto a figura intera della Fondatrice dell’ordine delle Stimmatine. Dietro a un grande tavolo li aspettava la Madre.
“Da anni conosco vostra figlia e conosco le sue doti artistiche. Vi proporrei…”
Giacomo tirò un sospiro di sollievo. Aveva pensato che sua figlia volesse prenderei voti.
La donna continuò “Abbiamo un convento a Milano dove potremmo ospitare vostra figlia e farle frequentare la scuola d’arte. Noi ci facciamo carico della spesa per farla diplomare. In cambio lei insegnerà in una nostra scuola per cinque anni”
A Giacomo che oltre alla passione per la musica amava disegnare sembrò un sogno, per Gemma meno. Fu lei infatti a parlare.
“Noi la ringraziamo… ma la nostra figliola da sola a Milano…”
“Come vi ho detto” riprese la Madre Superiora “non è sola alloggerebbe nel nostro convento” 
 Giacomo prese la parola “Madre, è una decisione importante abbiamo bisogno di pensarci. Vi facciamo sapere al più presto”
“Giusto!  È una decisione importante. È il futuro di vostra figlia. Pensateci, sapete dove trovarmi”
 
Pochi giorni dopo Elia partiva per Milano. La scuola la impegnava molto. Quasi tutti i giorni scriveva a casa fino a quel giorno. Anzi a quella notte. Le ragazze del convitto vennero svegliate dal suono rauco e penetrante delle sirene e dal rombo degli aerei che sorvolavano le loro teste. Giusto il tempo di indossare qualcosa e ci fu una corsa generale per raggiungere il rifugio poco distante. Era il mese di agosto del 1943
“Avevo più paura ad infilarmi in quel cunicolo stretto pieno di gente che urlava che delle bombe!” questo mia madre lo diceva sempre.
Giacomo e Gemma appresero la notizia “Gli alleati hanno bombardato Milano” e si precipitarono al convento per avere sue notizie. Le ragazze erano tutte salve però non erano più al sicuro. La Madre Superiora disse loro che a Firenze avevano un altro convento con la scuola attigua. Elia sarebbe andata lì. Non era destino che mia mamma facesse quella scuola. Il 25 settembre del 1943 i cacciabombardieri volarono anche sopra Firenze. Lei fece la valigia e tornò a casa.
 
La guerra dei civili
Dopo avere rinunciato alla scuola d’arte Elia riprese la vita in famiglia ma le sirene di quella notte a Milano non la facevano dormire. Sua mamma cercava in tutti i modi di starle vicino, accontentandola come meglio poteva. Come quel giorno che lei espresse il desiderio di uscire di casa.
Elia racconta così:
La mia cugina era venuta dal Piano a trovarci. A casa avevano finito la lisciva per lavare i panni e solo una scaglia di sapone per lavarsi. Noi non avevamo più il sale. In una borgata vicina una donna li vendeva al mercato nero. Mia mamma non voleva che andassi, alla fine riuscii a convincerla e insieme a mia cugina uscimmo di casa “Mi raccomando” ci disse dalla porta “un passate dalla strada maestra, seguite i viottoli!”
Era una bella giornata di sole, non seguimmo il suo consiglio e continuammo a camminare sulla strada maestra. La strada era tutta per noi. Fatte poche centinaia di metri vedemmo un carro trainato da due cavalli che avanzava, a guidare la pariglia c’erano due militari tedeschi. Mi si fermò il cuore. Non c’era un posto da nascondersi. I militari si fermarono davanti a noi e cominciarono a urlare nella loro lingua indicandoci di salire, mi vennero in mente le raccomandazioni di mia mamma. Era tardi. Cercammo in tutti i modi di far capire ai due giovani che noi dovevamo andare a casa, che la mamma ci aspettava. A forza ci fecero salire, una dopo l’altra. Vidi la mia paura negli occhi della Bruna. Braccia e gambe non mi rispondevano più, come avessero perso la forza. Poi d’improvviso le gambe ritrovarono la vita, cercai di scappare saltando giù dal carro e con le mani in fianco dissi “Io non ci vengo con voi! Torno a casa, la mi’ mamma m’aspetta” Non so dove trovai il coraggio.
Uno dei due uomini scese, mi puntò la pistola e fece cenno di salire. Con il cuore che mi scoppiava nel petto salii. Lungo la strada presero altre ragazze alla fine il carro era pieno. Ci portarono in campagna. La mia gola era secca come il bosco dopo un incendio e dalle nostre bocche non uscivano suoni. Alla fine il carro si fermò e ci fecero scendere. Indicarono delle zappe e un campo.
“Solo in seguito ho saputo che quell’urlare: kartoffeln sammeln, voleva dire: raccogliere le patate”
Mia mamma era stata avvisata da un vicino che aveva visto la scena. Prese la bicicletta di mio padre e si precipitò giù per la strada. In molti avevano visto quel carro pieno di giovani ragazze. Passò prima ad avvisare la sorella e seguendo le indicazioni arrivarono al campo di patate.  Lei capì subito quello che stava succedendo, si avvicinò ad uno dei militari e si offri di prendere il mio posto. Il militare accettò. Mia mamma mi accompagnò alla bicicletta e mi fece cenno di salire. Io non volevo. Non volevo lasciarla lì. Mi prese per un braccio lo strinse forte e con un filo di voce mi disse “Via su’… svelta va’ a casa, va’… un ti girà” Il suo viso era bianco come la Veccia del Sepolcro. I pedali sembravano arrugginiti e i copertoni incollati alla strada. Da sola, con la paura di incontrare altri militari pedalai verso casa. Raccontai tutto a mio padre rientrato da poco. Cercai in tutti i modi di tranquillizzarlo ma all’imbrunire mia mamma non era ancora rientrata. Decidemmo di andarle incontro. La vedemmo spuntare da lontano con un grosso sacco sulla testa come si usava al tempo, mio padre le corse incontro per toglierle il pesante fardello. I due militari avevano lasciato ad ogni donna una parte delle patate raccolte.
 
Seguì l’otto settembre. Hitler diede l’ordine di disarmare le truppe italiane. I civili non sapevano più chi erano i buoni e i cattivi. Molti militari italiani disertarono per unirsi ai partigiani. Altri vennero fatti prigionieri dai militari tedeschi. Anche Amelio: mio padre era tra questi, non aveva nessuna colpa se non quella di essere un soldato italiano.
 
Amelio e L’8 settembre
Avevo lasciato Amelio al rientro in caserma lo ritrovo stipato su un carro bestiame destinato a un campo di lavoro vicino a Mauthausen. Molto vicino. Tanto da poter vedere il fumo che usciva dai camini e sentire l’odore nauseante della carne bruciata. Nel campo c’erano migliaia di prigionieri: Russi, Polacchi e Rumeni. Amelio che aveva esperienza nella lavorazione del ferro fu destinato alla fabbrica dei Nibelunghi G.M.B.H. St. Valentin ND che costruiva i carri armati Tigre. Doveva stare molto attento: un banale sbaglio nel montaggio di un pezzo poteva essere visto dai Tedeschi come un tentativo di sabotaggio e poteva farlo finire davanti a un plotone d’esecuzione. Imparò velocemente la lingua. Per riportare a casa la pelle doveva rendersi utile e capire cosa dicevano i suoi carcerieri. Con uno di loro fece amicizia. Era addetto al collaudo dei carri armati.
Fu una gelida mattina che quel militare invitò mio padre a salire su quel mostro d’acciaio: un carro armato Tigre pronto per il collaudo. La prova venne fatta in un pioppeto vicino. Gli alberi cadevano come fiammiferi sotto il loro passaggio. Amelio per un momento, solo per un momento, si sentì orgoglioso di avere partecipato alla sua costruzione. Dopo il collaudo fu invitato a fare una ricca colazione a base di carne affumicata e pane. Poi la vita nel campo riprese il suo andamento. Il freddo, la fame, la paura di non arrivare a sera creava tra i prigionieri situazioni angoscianti e pericolose, in molti tentarono il suicidio. Molti altri cercavano di conquistare un privilegio all’interno del campo a scapito dei compagni.
Dal racconto di Amelio: Una notte non riuscivo a dormire nonostante la stanchezza, sentii l’allarme che segnalava la presenza dei cacciabombardieri. Tutti abbandonammo la branda e ci buttammo dentro al rifugio un attimo prima che una pioggia di bombe cadesse sopra le nostre teste. Ero schiacciato dai miei compagni. Sentivo il freddo della terra umida contro al mio viso e l’odore acre dei miei compagni che si mischiava con il mio. Mentre la terra tremava senti il mio corpo come un contenitore vuoto. Pensai alla mia vita, al paese, ai miei genitori. Mi chiesi: “perché tutto questo? Per chi?”. Tanto era il terrore che smisi di pensare”
Tutto finì come era cominciato. Il rumore si allontanò e tutti lasciarono il rifugio. Nei giorni seguenti Amelio seppe che il bombardamento a tappeto doveva distruggere la fabbrica dei carri armati e solo per poco avevano sbagliato bersaglio. Gli alleati anglo- americani li bombardavano, i tedeschi un tempo alleati li avevano fatti prigionieri, i prigionieri stranieri li vedevano come potenziali traditori, temendo che dopo la liberazione di Mussolini al Gran Sasso per mano dell’esercito tedesco potessero riallacciare l’alleanza interrotta da Badoglio. Per Amelio e per gli altri suoi compagni italiani non fu facile passare due anni di prigionia in quelle condizioni.
Poi arrivò un giorno di maggio del 1945 e gli americani aprirono le porte del campo. Rumeni, polacchi e italiani si abbracciarono e piansero insieme. (continua…)

 

Franca Giannecchini
 

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25/10/2022 - 11:23

AUTORE:
Franca

Sì, credo anch'io che non siamo riusciti a fare tesoro degli errori commessi in passato. Il genere umano ha poca memoria. Mi ricordo con che occhi mia madre guardava i telegiornali nelle tante guerre che ha visto in tv. Mio padre aveva deciso di non guardarla più la tv, ma parlava spesso di tutti gli anni passati tra guerra e prigionia. Scrivendo sono riuscita a capire a distanza di anni anche i gesti di rabbia che l'hanno accompagnato nella parte finale della sua vita. Per me è stato importante capire.

24/10/2022 - 9:02

AUTORE:
Lucia

Gli orrori della guerra non servono a niente se gli uomini continuano a fare guerre con armi sempre più potenti. La storia non ci ha insegnato la pace, la storia si ripete con prepotenze, arroganze e desiderio di avere sempre di più e in modo più violento. Esisterà davvero la pace tra i popoli? Esisterà davvero il rispetto per la vita? Ho grandi dubbi oggi.