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È possibile dipingere il silenzio?Questa è la domanda che si poneva la nuova mostra di Gavia al Real Collegio di Lucca, cercando una risposta nelle immagini dipinte. 
E la mostra ha rappresentato quello che l'artista stessa ama, uno spazio di incontro e di condivisione di un senso comune all’interno di una situazione pittorica, materiale e artistica ma anche in particolare il luogo dove possa emergere una realtà di emozioni che attingano dentro ogni nostra sensibilità intima e “silenziosa”. 

. . . lo sai che lo diceva anche la mia. Però al .....
Bimbo lasciala sta la geografia, studia l'agiografia. .....
. . . niente, mi sa che bisogna riformare l' ISTAT. .....
. . . ci sono più i premi di una volta.
Quest'anno .....
per pubblicare scrivere a: spaziodonnarubr@gmail.com
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Incontrati per caso...
di Valdo Mori
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Incontrati per caso...
di Valdo Mori
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di Emanuele Cerullo
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Libero caro
mio dolce tesoro
più ti guardo, ti "esploro"
più sembri un capolavoro
Un'inesauribile fonte
di emozioni
una sorgente
un erogatore .....
Nel paese di Pontasserchio la circolazione è definita "centro abitato", quindi ci sono i 50km/ h max

Da dopo la Conad ci sono ancora i 50km/ h fino .....
Tutto sulla famiglia, la mia:(nona puntata)

21/11/2022 - 9:18


Aprile 1962, Carlo Carrà espose per la prima volta i suoi quadri al Palazzo Reale di Milano. Mia madre, tornò a disegnare. Lo faceva sulla carta con cui le incartavano lo zucchero. Ogni tanto staccava le pagine centrali dal quaderno a righe di mio fratello, in seguito mio nonno Giacomo le regalò la carta da disegno. La custodiva nel cassetto, sotto la biancheria. I suoi modelli eravamo noi: io mentre dormivo, mio fratello chino sui libri. Mio padre, con la testa appoggiata alle mani incrociate sul tavolino di cucina. La sua sigaretta che si consumava piano fino alle dita, in parte coperte da un bicchiere di vino rosso.
Un giorno mia mamma entrò nella cartoleria del paese e si fece un regalo: un foglio di carta da disegno 50x70 e delle nuove matite a carboncino. Quando i rumori del giorno lasciavano posto alla notte, lei iniziava a disegnare. Viste le dimensioni del foglio, di giorno lo collocava sopra l’armadio della camera da letto.
Disegnò un uomo dalle vesti ricamate, seduto su di una poltrona regale. Al collo, aveva una morbida stoffa bianca che incorniciava il volto disteso in un sorriso. Il copricapo lasciava scoperta la fronte. La sua mano sinistra era in parte coperta dalla manica del vestito, la destra, alzata con le dita del mignolo e l’anulare piegate verso il palmo della mano. Era il ritratto di Papa Giovanni XXIII: il Papa buono. Ce lo mostrò a pochi giorni dalla prima sessione del Concilio Vaticano II. Era l’ottobre del 1962.
Due anni dopo, con lo stesso quadro partecipò alla sua prima mostra collettiva di pittura, a Lucca. 
 
Aristea e la nuvola


27 ottobre 1962 sopra i cieli di Pavia, a Bascapè un Jet privato precipitò e insieme all’equipaggio perse la vita, quello che in quel periodo era considerato l’uomo più potente d’Italia: Enrico Mattei. Un mese dopo anche la nostra famiglia subì una perdita:
“Nonna Aristea ci ha lasciato per andare in cielo” così ci disse mia madre.
“Perché in cielo?” le chiesi
“In cielo dal Signore” rispose.
“Quale Signore? Noi siamo tutti qui! Perché lei è andata in cielo da un signore?” e senza lasciarle modo di rispondere aggiunsi “in cielo dove?”
“…Su una nuvola”
Io provai a immaginarmi nonna Aristea a cavallo di una nuvola. I miei genitori partirono in fretta e furia per raggiugere il paese di Focchia per i funerali. Quando tornarono a casa, con loro c’era anche nonno Alfonso. In una sacca di tela aveva il pentolino in alluminio dove nonna Aristea preparava il caffè d’orzo. Non aveva trovato un recipiente tanto grande, da contenere il profumo dei castagni in fiore.
Mia madre, donna pratica, cucì una tenda per creare un po’ di intimità nella cucina: uno spazio notte per nonno Alfonso. Quando ripenso a quel periodo mi viene in mente lo spettacolo teatrale: Il Signor G. Noi eravamo solo cinque ma quell’appartamento era davvero piccolo. In quel periodo, per non disturbare nonno Alfonso, lasciammo in stazione il con il nostro treno. Io andavo a giocare da nonna Gemma e mio fratello nella bottega di nonno Giacomo. Ogni tanto mia madre ci lasciava andare in strada.
Davanti alla nostra abitazione c’era un vecchio palazzo diroccato: il Palazzo Giannini. All’insaputa di mia mamma, io e mio fratello andavamo con gli amici. Ci infilavamo in quei cunicoli pieni di ragnatele dal fascino unico. Avevo trasformato il rudere in un castello e lo avevo animato di principi e principesse.
Nonno Alfonso ogni giorno diventava sempre più triste. Per passare il tempo andava nella bottega di nonno Giacomo, ma un po’ per timidezza e un po’ per mancanza di argomenti rientrava subito in casa. La sua inflessione dialettale faceva ridere gli interlocutori e in quel momento mio nonno, aveva poca voglia di ridere.
Un giorno, mia madre decise che doveva trovarsi un lavoro per migliorare la nostra situazione economica. Acquistò una licenza per la vendita di generi alimentari, comprò un motorino con il portapacchi e due taniche di plastica. Andava a vendere nelle case, olio e olive dolci. Molti dei colleghi di mio padre diventarono suoi clienti.
9 ottobre 1963. L’onda di risalita provocata dal distacco di un masso dalla parete del Monte Toc, caduto poi nel bacino artificiale del Vajont, distrusse in parte i paesi di Erto e Casso, per poi proseguire la corsa verso la città di Longarone spazzandola via. Nella nostra famiglia invece arrivarono delle belle novità.
Il lavoro di mia madre procedeva bene, tanto da convincerla a prendere la patente e a comprarsi un’auto. Anche i baffi di nonno Alfonso sorrisero: con quel mezzo potevamo andare a Focchia, portare i fiori sulla tomba di nonna Aristea e rivedere i parenti. Era una Fiat Cinquecento bianca familiare targata 58940.
Nonno Alfonso, gita dopo gita, riemerse dalla nuvola grigia che lo aveva inghiottito.
Quando non ero all’asilo era nonna Gemma che si prendeva cura di me. Quella mattina era intenta a preparare il pranzo quando si accorse che non c’ero più.
Abbandonò le faccende domestiche e perlustrò tutte le stanze della casa, anche quelle al piano superiore. Di me non c’era traccia. Si levò il grembiule e scese di corsa le scale entrando come un tornado nella bottega di mio nonno.
“Giaomino… l’hai vista la bimba?”
“No! Un n’ho vista oh Ge’… ma un’era in casa con te?”
“C’era sì!  Faceva avanti indietro che mi faceva girà la testa. Dove sarà andata? Dai appoggia la porta… e andiamo, bisogna trovarla!”
“E dove andiamo?”
“Oh Giaomino, dove voi andà? In Camaiore! Un po’ esse andata lontana, è alta quanto un soldo di cacio”
 
Nonno Giacomo chiuse la porta della bottega e seguì la moglie. Poi si divisero, uno a destra e uno a sinistra. Girarono per tutto il centro di Camaiore ma di me non c’era traccia. Si ritrovarono davanti alla bottega.
“Io vado in casa” disse mia nonna e aggiunse “mi metto le scarpe e vado dà Carabinieri! Gesù, Giuseppe e Maria aiutateci, un l’avranno mia portata via?”
Senza aspettare risposta, nonna Gemma imboccò le scale di casa fino alla cucina.
Mi trovò lì, in piedi sopra un panchetto di legno davanti all’acquaio. Facevo il bagno alla bambola.
 
La nuova casa di campagna


L’appartamento dei miei nonni a Camaiore era piccolo per noi. Per questo motivo i nostri genitori decisero di cercarne uno più grande. Nella nuova casa, abbandonammo definitivamente il gioco del treno per giocare a Indiani e Cow Boys armati di fucili, archi e frecce con i nuovi amici. Per costruire le armi usavamo dei pezzi di legno. Nello stesso periodo mio fratello si appassionò alla lettura di un fumetto, il viso pallido che difendeva a costo della vita i Pellirosse: Tex Willer. Io preferivo Topolino, solo in seguito ho amato Tex e la sua bella e triste storia d’amore con Lilith, la figlia del Capo Indiano. 
In quella casa ho vissuto l’esperienza del primo giorno di scuola e la prima comunione, della seconda ricordo il regalo che ci fecero i nostri genitori: una macchina fotografica Ferrania con la custodia in pelle color marrone.
Nonno Alfonso fece nuove amicizie. I vicini di casa provenivano dalla Garfagnana e il loro modo di parlare lo faceva sentire meno distante dai luoghi dove era nato. In seguito lui e mio padre costruirono un pollaio e fecero l’orto. I nostri genitori erano impegnati con il lavoro, d’inverno io e mio fratello andavamo a scuola, durante l’estate dopo avere giocato, aiutavamo nonno Alfonso nelle faccende domestiche. Per renderci il lavoro allettante, mia madre ci dava la paghetta settimanale che noi la domenica investivamo al cinema Borsalino a Camaiore.
In quel periodo cominciai a guardare attentamente mia madre. I suoi capelli erano lisci e le gambe affusolate. Lei non rideva con la bocca aperta, sorrideva, sorrideva sempre. Non accavallava e non incrociava mai le gambe, le piegava da un lato e le tirava a sé. Guardavo lei poi guardavo me riflessa nello specchio dell’armadio della camera da letto.” Mi hanno adottata” pensavo. Una sera dopo cena mentre lavava i piatti le domandai: “Mamma. Mi avete adottata?
“Ma che ti viene in mente, sei tutta tuo padre”
Lo disse, come una cosa di cui non mi dovevo vantare. (continua…)
 
Franca Giannecchini

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