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L'articolo di oggi non poteva non far riferimento alla festa del SS. Crocifisso che Pontasserchio si appresta a celebrare, il 28 aprile.Da quella ricorrenza è nata la Fiera del 28, che poi da diversi anni si è trasformata in Agrifiera, pronta ad essere inaugurata il 19 aprile per aprire i battenti sabato 20.La vicenda che viene narrata, con il riferimento al miracolo del SS. Crocifisso, riguarda la diatriba sorta tra parroci per il possesso di una campana alla fine del '700, originata dalla "dismissione" delle due vecchie chiese di Vecchializia. 

. . . leggo:
Bardi (c. d) 56% e rotti
Marrese ( c. .....
. . . vuoi il solito disegnino?
IV con i 5* non ci .....
. . . anche sommando Pd, 5Stelle, Azione, Iv, Avs .....
In Basilicata se il centro sinistra avesse optato per .....
per pubblicare scrivere a: spaziodonnarubr@gmail.com
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Di Gavia
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di Michelle Rose Reardon a cura di Giampiero Mazzini
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di Mollica's
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Di Siciliainprogress
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Se oltre a combattere
quotidianamente
Con mille problematiche
legate alla salute
al reddito
al lavoro
alla burocrazia
al ladrocinio
alla frode
alla .....
Oggi è venuto a mancare all’affetto di tutti coloro che lo conoscevano Renato Moncini, disegnatore della Nasa , pittore e artista per passione. .....
Tutto sulla famiglia, la mia:(dodicesima puntata)

27/12/2022 - 18:17

Il terremoto
 
23 novembre 1980. Sant’Angelo dei Lombardi in Irpinia fu uno dei paesi più colpiti dal terremoto. Anche l’abbandono forzato del lavoro provocò un terremoto nella vita di mio padre. Abituato fin da giovanissimo a lavorare non accettava la nuova condizione. Era abituato a salire sul Pullman alle sei di mattina per recarsi al lavoro e rientrare a casa solo nel tardo pomeriggio, per lui le giornate erano interminabili. Molto del suo tempo lo passava nel bar vicino casa dove era difficile resistere all’alcool. Quando rientrava a casa il suo passo era incerto. “Molti uomini bevono” diceva mia mamma.  Mio padre trovava da ridire su tutto “Questa minestra è buona per le galline” diceva, spostando il piatto e alzando la voce. Io e mio fratello non invitavamo più gli amici a casa, ci vergognavamo.
Un giorno, dopo l’ennesima discussione con mio padre dissi a mia madre: “Se te quel giorno non fossi andata in quel maledetto paese sarebbe stato tutto diverso”
“Se io non fossi andata a Focchia, te ora non ci saresti” mi rispose.
“Sarebbe meglio!” dissi, e uscii di casa sbattendo la porta.
Nei lineamenti di mio padre solcati più dall’alcool che dall’età, non riconoscevo più l’uomo che da piccola mi teneva stretta sulle ginocchia mentre mi raccontava le favole. In quei giorni affiorò un ricordo. 
 
Favole


Domenica dopo pranzo. Gonna di lana e maglioncino, calzettoni che mi arrivavano alle ginocchia e scarpe di vernice nera, io non le trovavo comode, mia mamma diceva che erano belle.
Allungai il braccio per farmi infilare il Montgomery. “Buca, buca” disse mia mamma, la parola magica che permetteva all’altro braccio di trovare la manica. Anche quel giorno mi aveva fatto quei buffi ciuffetti, diceva che così ero più ordinata. Io li odiavo, sembravo un barboncino, odiavo anche i barboncini. Per fortuna quel giorno tirava vento. Li coprii con il cappello e con il cappuccio del Montgomery. Era bello il vento, in quella stagione faceva volare le foglie. Anch’io mi sentivo leggera come loro, quando mio padre mi prendeva in braccio e mi diceva “Quando sei con me non devi avere paura di nessuno” Mi faceva vedere le sue mani, erano grandi come badili. Io non avevo paura. 
Anche quel giorno scendemmo le scale di casa, lui aprì la porta, c’era vento. Camminammo cinque minuti tenendoci per mano, mi guardò “Vieni?” Gli tesi le braccia e appoggiai la testa alla spalla, la sua giacca sapeva di brillantina e fumo di sigarette. Dieci minuti ed eravamo al bar. C’era fumo dentro. Non potevamo stare fuori a causa del vento. Lo guardavo giocare a carte, bestemmiava quando vinceva e quando perdeva, bestemmiava sempre.
“Papi, mi compri il gelato?”
“Si! Si vai, se non ci arrivi fattelo dare dalla Maria”
“Ci arrivo… ci arrivo”
Saltai giù dalla sedia e mi avvicinai al grande frigorifero rettangolare, salii con tutti e due i piedi sui pioli della sedia vicina e feci scivolare la plastica che ricopriva il frigorifero, da sinistra verso destra. Era lì, a destra, il mio gelato preferito: il cornetto. Lo feci vedere alla Maria e tornai a sedermi vicino a mio padre. Finirono la partita a briscola, e ne iniziarono un’altra. Mi annoiavo. Cominciai a dondolarmi. Al posto delle persone sulle sedie immaginai cani e gatti, anche loro giocavano a carte ma non bestemmiavano.
“Papi, Papi…”
“Sta’ bona, sono sul difficile”
Era il momento giusto.
“Posso prendere un altro gelato?”
“Si, si, prendi quello che vuoi, se non ci arrivi dillo alla Maria, ma non lo dire alla mamma”
Facevo lo stesso percorso di prima. Quando mi vedeva scendere dalla sedia la Maria prendeva il taccuino e segnava. Tutte le domeniche la stessa storia. Il sole era calato quando uscimmo dal bar. Tirava ancora vento. Mio padre mi prese in braccio, io appoggiai la testa alla sua spalla. La sua giacca sapeva di fumo di sigarette.
“Sei stanca?”
“Un po’”
“Allora, domenica prossima stai a casa?”
“Io non sono stanca, domenica ritorno. Mi racconti una favola?”
“Quale?”
“Quella di Bianca bella fior di lino”
“C’era una volta Bianca bella fior di lino…”
Il tempo delle favole era finito. I ricordi belli s’intrecciavano con quelli brutti, come i rami del salice in un canestro.
Alice pagò per noi
Era domenica mattina e l’estate stava per finire. Ero uscita dal pollaio e con due uova in mano, ero salita per le scale di casa mentre mia madre mi aspettava in cucina con due bicchieri. Lei ruppe le uova, separò il tuorlo dagli albumi e li fece scivolare nei bicchieri, aggiunse un cucchiaio di zucchero in ciascuno e iniziò a girare fin che tutto non diventò bianco e soffice. Mi passò il bicchiere insieme al cucchiaino e fece la stessa operazione con l’altro, per mio fratello. Scesi le scale di marmo, mi misi a sedere sul penultimo gradino e iniziai a mangiare. Mio padre uscì dalla cantina urlando e bestemmiando, nella sua voce c’è una rabbia che non avevo mai sentito prima “Ora basta! Glielo faccio vedere io chi comanda in questa casa!” disse. Appoggiai il bicchiere sul gradino e mi alzai, lui si diresse all’interno del pollaio dov’erano le gabbie dei conigli. Sulla sinistra ce n’era una che ospitava una famiglia di Porcellini indiani, da poco più di un mese mamma Alice aveva partorito. Io e mio fratello avevamo convinto i nostri genitori a tenerli tutti. Spesso li facevamo uscire dalla gabbia per correre liberi nel prato. Un paio di mesi prima mio fratello era rientrato in casa dicendo:
“Alice mi ha detto che presto nasceranno i suoi piccoli, saranno sei e nasceranno di sabato”.
“Si dai” risi “ora parli con la porcellina?”
“E perché? Te non parli con il cane e i gatti?”
“Si! Ma loro non mi rispondono”
“Ma io ho i super poteri” disse mio fratello uscendo di casa.
Dopo poche settimane nacquero sei Porcellini indiani, di sabato. Pensai che mio fratello avesse davvero i super poteri.
Ora ero lì, in piedi. Vidi mio padre che si dirigeva verso la grande gabbia di Alice, nonno Alfonso era in cima alla scala di marmo, mia madre era alla finestra con mio fratello. Mio padre aprì la gabbia di legno che aveva costruito, mi guardò, alzò lo sguardo verso la finestra “Vi faccio vedere io chi comanda!”
Si girò di nuovo verso la gabbia e con la rapidità di un Aquila prese uno alla volta i sei Porcellini indiani e con forza li scagliò contro il muro di pietra dell’orto. Per ultima lasciò Alice, un tonfo sordo e la vidi a terra. I suoi occhi erano di vetro. Rimasi in piedi, con le braccia lungo i fianchi, gli occhi pieni di lacrime che per la paura non scesero. Io e Francesco ci sentimmo responsabile della morte di Alice e dei suoi piccoli.
Non ricordo la ragione per cui mio padre si era arrabbiato tanto con noi. Avevo dieci anni.
Nei giorni successivi mio padre cercò di riparare, la sera quando rientrava a casa dal lavoro passava dal bar a prendere due cornetti della Sanson: variegato crema e cioccolata.
Ci vollero mesi perché noi accettassimo di nuovo quei gelati. Ogni volta che la sua voce si alzava pensavo al cane e ai due gatti, avevo paura che facessero la stessa fine. Piangevo.
Erano passati più di dieci anni ma io ero rimasta lì, invischiata a quei ricordi.
Mio padre un momento rideva, l’altro inveiva contro il primo che capitava, ogni scusa era buona per alzare la voce. In quei momenti sentivo ancora il tonfo sordo del corpo di Alice contro il muro dell’orto. (continua…)

 

Franca Giannecchini
 

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