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L'articolo di oggi non poteva non far riferimento alla festa del SS. Crocifisso che Pontasserchio si appresta a celebrare, il 28 aprile.Da quella ricorrenza è nata la Fiera del 28, che poi da diversi anni si è trasformata in Agrifiera, pronta ad essere inaugurata il 19 aprile per aprire i battenti sabato 20.La vicenda che viene narrata, con il riferimento al miracolo del SS. Crocifisso, riguarda la diatriba sorta tra parroci per il possesso di una campana alla fine del '700, originata dalla "dismissione" delle due vecchie chiese di Vecchializia. 

. . . non discuto. Voi riformisti fate il vostro cammino .....
. . . l'area di centro. Vero!
Succede quando alla .....
. . . ipotetica, assurda e illogica. L'unica cosa .....
. . . leggo:
Bardi (c. d) 56% e rotti
Marrese ( c. .....
per pubblicare scrivere a: spaziodonnarubr@gmail.com
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Ecco la lista di Vicopisano in Cammino.
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di Umberto Mosso
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di MARIAROSARIA MARCHESANO (Il Foglio)
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di Vittorio Ferla
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Di Alexia Baglivo
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Di Gavia
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di Michelle Rose Reardon a cura di Giampiero Mazzini
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di Mollica's
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Di Siciliainprogress
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Se oltre a combattere
quotidianamente
Con mille problematiche
legate alla salute
al reddito
al lavoro
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al ladrocinio
alla frode
alla .....
La Proloco di San Giuliano Terme, attenta alla promozione e alla valorizzazione dell'ambiente indice il concorso "il giardino e il terrazzo più bello" .....
Tutto sulla famiglia, la mia: (quattordicesima puntata)

15/1/2023 - 14:38


Gli anni passano


Gli anni passano veloci: come le rondini a primavera.


Aprile 2020. Il Coronavirus entra nella vita di tutti.
Giro la chiave nella serratura e spingo piano. Aspetto un minuto che gli occhi si abituino al buio. Dal corridoio arrivo in cucina, appoggio la borsa e il portatile sulla sedia e apro uno dei due scuretti, una striscia di luce si disegna sul pavimento chiaro. Mi affaccio alla camera da letto: mia mamma dorme ancora. Tolgo il portatile dalla custodia, lo appoggio sul tavolino e lo apro, estraggo dal mouse il ricevitore bluetooth e lo inserisco. Inizio a copiare gli appunti che ho scritto sul quadernone a righe. Guardo l’ora sullo schermo illuminato: sono le 8.01.
Sento un rumore provenire dalla camera da letto, guardo l’ora: le 9.36. Salvo quello che ho scritto, sposto la sedia e mi alzo.
“Ti sei già svegliata?” dico a mia madre che mi guarda sbattendo gli occhi.
Lei si gira verso il comodino e accende la luce della abatjour. L’aiuto ad alzarsi. È sua abitudine rimanere qualche minuto con le gambe fuori dal letto prima di mettersi in piedi, ne approfitto per avvicinare le ciabatte e il deambulatore. Sbadiglia. Guarda la sveglia, gli occhi gli si stringono come accecati dal sole.
“Che ore sono?” dice sbadigliando di nuovo.
“Le 9.45”
“Ho dormito tutta la notte” dice dopo essersi strusciata l’occhio sinistro con il dorso della mano e aggiunge “ne avevo bisogno, l’altra, non ho mai dormito, ho letto un po’” e mi indica Famiglia Cristiana sul comodino.
L’aiuto a calzare le ciabatte, mia madre appoggia le mani sul deambulatore e dopo avere detto ad alta voce “Un, due e tre, forza!” si alza.
” Hai visto come sono brava?” mi dice e sorride.
Accendo la luce in cucina mentre lei a piccoli passi mi raggiunge. Guarda il portatile appoggiato sul tavolo.
“A che punto sei con il racconto?”
“Stavo ricopiando quello che ho scritto venerdì, di quando Francesco passò tutte quelle ore in grotta”
Sposto una delle sedie per farla sedere.
“Non ci voglio ripensare. Nella bara, io lo vedevo già nella bara”
“Forse è per quello che non hai dormito la notte scorsa, ci ripensavi?”
“Forse” dice ridendo. Poi ripete: “un, due, tre, forza!”
Al primo tentativo si alza dalla sedia per andare in bagno.
Le giornate si allungano. Il telefono di casa squilla, appoggio il pomodoro sul piatto e mi asciugo le mani. Alzo la cornetta, il filo del telefono s’impiglia all’angolo della mensola, devo usare tutte e due le mani per non farlo cadere e con il gomito urto la spalla di mia madre che mi guarda. Le faccio cenno che è tutto a posto.
“Buongiorno suor Paola, sì, oggi ci sono io. Sì, sì, tutto bene. Le passo la mamma, mi saluti suor Elisabetta”
Mia mamma si toglie le cuffie e le appoggia sulla mensola, io ritorno a preparare il pranzo.
Dopo una decina di minuti lei e suor Paola si salutano. Mia madre riprende a guardare la televisione, mentre Papa Francesco si affaccia al balcone per la benedizione: Urbi et Orbi. Dopo pranzo, mi alzo per preparare il caffè.
“Prendi le tazzine belle” dice mia madre.
Tolgo dalla vetrina le ultime rimaste dal suo corredo: sono bianche e molto leggere, il bordo è in oro come i fregi tra una rosa e l’altra.
Il tempo di prendere i cucchiaini e la zuccheriera che sento il borbottio della moka.
“Dopo ti faccio vedere una cosa” dice mia madre.
“Cosa?”
“Dopo”
Bevo il caffè che è ancora bollente, mentre mia mamma sorseggia il suo come se la tazza avesse un doppio fondo.
“Allora, cosa mi vuoi far vedere?” dico mentre mi alzo.
Con il telecomando, lei tira su la spalliera della poltrona. Al secondo tentativo riesce a mettersi in piedi “Vieni” mi dice.
La seguo. Attraversiamo la sua camera, la stessa dove molti anni prima dormivamo anche io, mio fratello e mio padre. Una tenda verde molto leggera la divide da quello che per anni è stato il suo studio, dove ha scritto poesie, dipinto paesaggi e ritratti. Passiamo davanti a quello di Giacomo Puccini.
“Mi era venuto bene” dice e aggiunge indicando sulla destra altri quadri “anche loro”
A fare compagnia al Maestro ci sono le sue donne: Butterfly, Tosca e Turandot ritratte a figura intera. Il suo studio molti anni prima era la cucina dei miei nonni, Giacomo e Gemma e anche il luogo più luminoso della casa dove mia madre ricamava.
Mi indica l’ultimo cassetto del comò, quello con la pietra grigia e le maniglie in ottone. Lo apro, sulla destra c’è la scatola con le foto che ho trovato in soffitta, di lato c’è il nastro arrotolato. Avvicino le mani per prenderla.
“No! Non quella, le foto le sistemiamo un altro giorno” dice mia madre. Poi mi indica un pezzo di stoffa rigonfio come un cuscino dalla forma quadrata. Lo prendo, è ruvido sotto le dita.
“È fatta al telaio, è lino” dice mia madre.
Risponde a quella che sarebbe stata la mia domanda. L’appoggio sul tavolo, prendo i lembi della stoffa e li apro: il profumo di lavanda come un vapore leggero riempie la stanza. C’è una federa bianca che al tatto sembra pelle d’uovo, la stoffa con cui un tempo cucivano il necessario per neonati. È bordata da un pizzo sottile da ambo i lati e in alto, rispetto al centro, arricchita da un ricamo a punto pieno. Infilo la mano nella parte aperta, mi trovo tra le dita una copertina bianca lavorata ai ferri. La spiego. Il bordo è lavorato a grana di riso doppia, al centro, su un rettangolo lavorato a maglia rasata ci sono degli intrecci: come fiocchi distribuiti in ordine sparso.
“È la copertina che fece la nonna Gemma per Francesco, la federa l’avevo ricamata io”
Mia madre mi fa cenno di passarle la copertina, sfiora le piccole sfere rialzate e senza alzare gli occhi dice:
“Se la nonna Gemma non si fosse accorta che Francesco non stava bene. Non ci posso pensare” aggiunge, alzando gli occhi.
“Forse è arrivato il momento di sapere la verità” penso.
Lei continua “Dopo averlo visitato il medico ci disse: l’intelligenza è salva”
Avevo sentito centinaia di volte quella frase e io avevo fatto sempre la stessa domanda a mia madre, anche quel giorno:
“Mamma, cosa aveva avuto Francesco da piccolo?”
Mia madre continua a sfiorare la coperta e se la porta al viso
“Questa è di Francesco” mi dice, mentre me la porge.
“Domani gliela dai”
“Gliela darai te. Poi”
“…? Mamma, ma cosa…?”
Il trillo del telefono entra nella stanza, come una fucilata in un camposanto. Appoggio la copertina sul tavolo, vado in camera di mia madre e sfilo il cordless dalla base.
“Pronto. Sì, ciao. No, non disturbi anzi le fa piacere. Te la passo, ciao Marta”
Passo il telefono a mia madre. Prendo la copertina tra le mani e ripenso alla storia che ho sentito raccontare centinaia di volte. Mio nonno Giacomo era andato a trovare mia mamma, aveva partorito da sei mesi e dopo il primo periodo passato a casa loro, a Camaiore si era trasferita a Focchia nella casa dei miei nonni paterni. Giacomo rimase alcune ore con la figlia e il nipotino poi arrivò il momento di tornare a Camaiore. Mia nonna Gemma stava preparando la cena quando il marito aprì la porta, lasciò cadere la sacca di tela in terra e le disse:
“Oh! Gè, a me, quel bimbetto lì, un mi garba nulla”
Mia nonna si asciugò le mani al grembiule che aveva in vita.
“Oh Giaomino, un fa discorsi” spostò una sedia dalla tavola e si mise a sedere “perché un ti garba?”
Mio nonno le spiegò il motivo, mia nonna sciolse il nodo e si levò il grembiule davanti, scese di corsa le scale di casa e andò all’ambulatorio del loro medico “È fuori per visite” disse la moglie.
“Quando rientra gli dica di veni’, è urgente”
Mia nonna tornò a casa. Era buio quando il medico entrò dalla porta di legno e salì le scale della loro casa.
“Conosco un bravo medico dell’ospedale di Lucca, dobbiamo fare in fretta” disse l’uomo.
I miei nonni la mattina dopo salirono sulla prima corriera per Lucca, in piazza S. Maria c’era l’altra, che li portava al paese di Gragliana. Fecero l’ultimo pezzo a piedi sulla mulattiera che conduceva al paese di Focchia di sotto. Il tempo di raccogliere gli effetti personali di mia mamma e di mio fratello e percorsero la strada al contrario.
“Ma dove lo portate?” chiese mia nonna Aristea.
Mio nonno Alfonso era nella selva e mio padre in quel periodo lavorava alle Fabbriche di Vallico.
“Dal dottore, un l’ho vedete che ‘un sta bene?” disse mia nonna Gemma, mia mamma non aveva fiato per parlare.
“Ma è un bimbetto bono, mangia e dorme”
“È troppo bono” aveva risposto mia nonna Gemma, mentre chiudeva la porta alle sue spalle.
Mio fratello venne sottoposto a vari esami. Poi tutto si era risolto. Del motivo per cui il medico pronunciasse la frase: l’intelligenza è salva, rimane un mistero.
Da piccola, vedevo mia madre in ansia per ogni piccolo malessere di mio fratello, pensavo che volesse più bene a lui che a me e facevo di tutto per attirare la sua attenzione. Mi tornano alla memoria alcuni episodi. Abitavamo nella casa dei miei nonni materni a Camaiore, era sera e mio padre stava per sedersi a tavola per la cena. Io gli passai alle spalle e con una mossa veloce, tolsi la sedia prima che lui si sedesse. Solo per un pelo non andò a sbattere la testa contro il muro. Dallo spavento non riuscì nemmeno a bestemmiare.
Alcuni mesi dopo: mio nonno Alfonso friggeva la polenta per la cena, io ne presi una fetta dal vassoio, la lanciai in padella e mi riparai dietro a lui. La spessa camicia a quadri lo difese dalle goccioline bollenti, poche arrivarono sulle sue mani indurite dal lavoro nei boschi.
Mia mamma provò a farmi benedire dal parroco ma con scarsi risultati.
Mio fratello non faceva niente per farmi ingelosire, anzi cercava di mediare con mia madre “È piccola” diceva “poi quando cresce cambia”
Non so quando, alla fine cambiai.
Io e mio fratello eravamo inseparabili. Era il mio lasciapassare, insieme a lui potevo andare dove volevo anche tutta la notte. Come quella volta che con gli amici andammo a vedere il Rally a Casciana Terme e a febbraio partecipammo a tutti i rioni del Carnevale di Viareggio.
I ricordi mi lasciano. Piego la copertina e la ripongo nel cassetto, accanto alla scatola con le fotografie. Nelle mani è rimasto il profumo di lavanda. (continua…)

 

Franca Giannecchini
 

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