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L'articolo di oggi non poteva non far riferimento alla festa del SS. Crocifisso che Pontasserchio si appresta a celebrare, il 28 aprile.Da quella ricorrenza è nata la Fiera del 28, che poi da diversi anni si è trasformata in Agrifiera, pronta ad essere inaugurata il 19 aprile per aprire i battenti sabato 20.La vicenda che viene narrata, con il riferimento al miracolo del SS. Crocifisso, riguarda la diatriba sorta tra parroci per il possesso di una campana alla fine del '700, originata dalla "dismissione" delle due vecchie chiese di Vecchializia. 

. . . anche sommando Pd, 5Stelle, Azione, Iv, Avs .....
In Basilicata se il centro sinistra avesse optato per .....
. . . presto presto. Io ho capito che arrampicarsi .....
I democristiani veri e finti che si vorrebbero definire .....
per pubblicare scrivere a: spaziodonnarubr@gmail.com
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Di Gavia
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di Michelle Rose Reardon a cura di Giampiero Mazzini
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di Mollica's
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Di Siciliainprogress
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Colori u n altra rosa
Una altra primavera
Per ringraziarti amore
Compagna di una vita
Un fiore dal Cielo

Aspetto ogni sera
I l tuo ritorno a casa
Per .....
Oggi è venuto a mancare all’affetto di tutti coloro che lo conoscevano Renato Moncini, disegnatore della Nasa , pittore e artista per passione. .....
di di Vittorio Ferla
Con Schlein regressione compiuta, una garanzia di stabilità per Meloni

28/2/2023 - 15:02

Con Schlein regressione compiuta, una garanzia di stabilità per Meloni

A dispetto della convinzione della gran parte dei commentatori la vittoria di Elly Schlein alle primarie del Pd è tutt’altro che ‘clamorosa’. Rappresenta solo l’ultimo stadio – definitivo, salvo (in questo caso sì, ‘clamorose’) sorprese – della regressione del partito.

L’origine di tutto è il rapporto con il riformismo (incarnato prima da Veltroni e poi da Renzi), da un lato, e con la ‘marea montante’ dei Cinquestelle, dall’altro.
Il riformismo – ovvero l’apertura della sinistra alle ragioni della libertà, del mercato, della modernità e dei nuovi ceti medi emergenti – non è mai stato digerito dalla mentalità utopistica e radicale del corpaccione del partito, innamorato della sua diversità berlingueriana e pasoliniana. Dopo il successo iniziale, Walter Veltroni, il segretario della vocazione maggioritaria e della competizione bipolare, protagonista della visionaria svolta del Lingotto, fu presto disarcionato e marginalizzato.

Matteo Renzi, erede ideale di quell’orizzonte riformista, fu vissuto come un leader abusivo: approfittando della sconfitta del 2018, la ‘ditta’ lo spinse ad abbandonare non solo la segreteria, ma anche il partito.
La ‘marea montante’ dei Cinquestelle (non usiamo a caso quest’espressione maoista) è stata vissuta dagli epigoni del comunismo italiano come l’esilio forzato di un popolo – deluso dalla svolta neoliberista del Pd – che doveva essere riconquistato e riaccolto nella casa madre. Per fare questo, sarebbero stati necessari la ‘santa alleanza’ progressista con il M5s e il ‘ritorno alle origini’, con il recupero di una presunta identità di sinistra perduta, a partire dalla riproposizione di parole e ‘battaglie’ chiave: difesa dei poveri, lotta alle diseguaglianze, giustizia climatica, tutela del precariato, e via elencando.
Pur con tutte le differenze, su questa piattaforma si sono mossi sia Nicola Zingaretti che Enrico Letta. Quest’ultimo, travolto alle elezioni dalla vittoria della destra meloniana, ha imbastito da segretario dimissionario un surreale e grottesco processo costituente che, tanto per cambiare, aveva alla sua radice il solito obiettivo: espungere dal Pd ogni traccia dell’ispirazione libdem e far rientrare a casa gli scissionisti di sinistra. Per raggiungerlo bisognava fare due operazioni. Eliminare definitivamente il ‘renzismo’, vissuto da una parte della vecchia classe dirigente come una vera e propria ‘infezione’ ideologica. Cancellare anche le origini riformiste del Lingotto con la riscrittura del manifesto fondativo. Letta non ha avuto la forza e la spudoratezza necessaria per realizzare la seconda operazione. Molto più facile, invece, completare la prima, anche per l’assenza di un leader capace di difendere le ragioni del riformismo.
Così, i candidati in campo per le primarie – Bonaccini, Schlein, Cuperlo, De Micheli – avevano, nei fatti, caratteristiche molto simili. Il motivo è semplice: tutti hanno cercato di rivolgersi alla base del partito con l’obiettivo di rassicurarla sul fatto che, un minuto dopo le primarie, la sinistra avrebbe finalmente recuperato l’eredità perduta dopo anni di – presunte – deviazioni di percorso. Stefano Bonaccini ha cercato di incarnare quel minimo di indirizzo riformista che ancora esiste nel Pd. Lo ha fatto nell’unico modo che conosce: con lo stile di un funzionario di partito, ex comunista, emiliano.

Ma la linea di amministrare con il buon senso l’esistente si è rivelata inevitabilmente troppo scolorita, insufficiente per attirare nuovi elettori al di là della base degli iscritti. Elly Schlein è stata capace, viceversa, di cavalcare l’onda e di incarnare lo spirito del tempo. In effetti, la giovane candidata ha saputo riportare alle urne delle primarie una buona parte di quella sinistra radicale che negli ultimi anni si era allontanata dal Pd, rifugiandosi nell’astensionismo, nel grillismo o nelle liste scissioniste minori. In questo senso, ha saputo sfruttare meglio l’occasione delle primarie, che servono proprio ad allargare la base elettorale del partito.
Stavolta però l’offerta dei candidati per le primarie era a tal punto circoscritta alla dimensione identitaria da lasciare completamente sguarnito il campo riformista. Gli elettori liberalprogressisti – che in passato hanno guardato con fiducia e speranza al Partito Democratico e che in occasione delle primarie si presentavano in massa al voto – questa volta non si sono sentiti minimamente interpellati da una competizione chiusa, completamente rivolta al proprio interno e alla ricomposizione del campo della sinistra tradizionale. Operazione legittima, certo, ma priva di fascino per un elettorato democratico che si sente alternativo alla Meloni, ma è poco interessato alla riconquista della purezza identitaria della vecchia sinistra.
Molti dirigenti democratici oggi gongolano festeggiando finalmente l’arrivo del ‘cambiamento’. Ma di cambiamento c’è ben poco. In primo luogo, perché praticamente tutte le vecchi correnti (tranne Base Riformista, da Orlando a Franceschini, da Zingaretti a Boccia, da Bettini a Provenzano) hanno sostenuto la Schlein, rinsaldando il tradizionale patto di sindacato sul partito. In secondo luogo, perché, a ben vedere, ciò che ritorna nel partito non è tanto il sol dell’avvenire, bensì il crepuscolo degli dei. Con Schlein alla segreteria, il millenarismo ecologico, la retorica delle diseguaglianze, la mistica del pauperismo, le barricate a difesa di scuola e sanità pubblica, il pacifismo arrivano per rimpiazzare, con nuovi nomi, la lotta di classe, la rivolta del proletariato, lo stato assistenziale, l’antiamericanismo e tutto il vecchio armamentario di certezze ideologiche che danno l’illusione di aver riconquistato l’identità.

Il prezzo che si paga è quello di restare fuori dall’evoluzione del mondo reale e dalle nuove sfide della storia.
Se tutto questo è vero, Giorgia Meloni può dormire sonni tranquilli. A meno che non sia la sua stessa maggioranza a crearle dei problemi (cosa che non è affatto da escludere), la vittoria di Schlein – cioè la vittoria della sinistra che si accontenta di fare un’opposizione retorica piuttosto che ambire a una prospettiva di governo – è la migliore garanzia di lunga vita per il governo in carica. È realistico – come per esempio si augura Francesco Boccia – che i dem possano diventare il primo partito della sinistra alle elezioni europee: facile che l’elettorato grillino in fuga possa scegliere di ritornare al Pd, ritrovandovi un tasso di populismo accettabile.

Assai improbabile, viceversa, che il populismo di sinistra emerso vincente dalle primarie del Pd, benché saldato con la pratica dorotea delle correnti, sia in grado di rappresentare una valida (per il paese) e attraente (per gli elettori) offerta di governo.

Il caso britannico di Jeremy Corbyn può insegnarci qualcosa.


Vittorio Ferla


Giornalista, direttore di Libertà Eguale e della Fondazione PER. Collaboratore de ‘Linkiesta’ e de ‘Il Riformista’, si è occupato di comunicazione e media relations presso l’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale del Lazio. Direttore responsabile di Labsus, è stato componente della Direzione nazionale di Cittadinanzattiva dal 2000 al 2016 e, precedentemente, vicepresidente nazionale della Fuci. Ha collaborato con Cristiano sociali news, L’Unità, Il Sole 24 Ore, Europa, Critica Liberale e Democratica. Ha curato il volume “Riformisti. L’Italia che cambia e la nuova sovranità dell’Europa” (Rubbettino 2018).











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Minimo 3 - Massimo 50 caratteri
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28/2/2023 - 23:06

AUTORE:
Tommaso

A parte il fatto che non si capisce cosa c'entra D'Alema in questo discorso, sarebbe il caso che lei sapesse di cosa parla. D'Alema diventò seg. del Pds nel 1994 dopo la sconfitta, c'era Occhetto segretario, alle elezioni di quell' anno vinte da Berlusconi. Ci è rimasto fino al 1998, novembre mi pare di ricordare, quando il partito aveva cambiato nome in Democratici di Sinistra. Il succesore , come tutti sanno tranne lei a quanto pare, fu Walter Veltroni che portò i Ds al minimo storico del 16,5, difatti poi si dimise e arrivò Fassino.
Piaciuta la storia ? Ecco, si dedichi al partitino del suo amico Rametti, lì hanno più bisogno del suo apporto, però attento...questi sono i migliori...

28/2/2023 - 18:34

AUTORE:
Amico di Enzo Rametti

Massimo D'Alema dopo due flop di Achille Occhetto, prese lui in mano il partito e nel 2001 il partito di Massimo D'Alema raggiunse il minimo storico (16,01%).

Poi 15 anni dopo, il renziano Massimo D'Alema aspirava "al posto" di Federica Mogherini alta rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza.

Lo sbaglio più grande in assoluto che ha fatto Matteo Renzi è di dar retta ai commissari Europei che chiesero: che a ricoprire il ruolo di "Mister Pesc" fosse una donna ed il Massimo avendo all'epoca i soliti baffetti non poteva mascherarsi da Mogherini.

"Baffino" la prese cosi male e giurò che finche avesse vita sarebbe stato per Matteo Renzi UN GROSSO PROBLEMA.

28/2/2023 - 17:33

AUTORE:
Tommaso

Va bene che il trauma deve essere stato forte, vedere Elly Schlein vincere contro tutte le previsioni, però l' informazioni dalle giuste. Veltroni, eletto segretrio Pd nel 2007, si dimise nel 2009 dopo aver perso le politiche nel 2008 e le regionali sarde nel 2009. In genere un segretario dopo due batoste è meglio che lasci. Lo stesso vale per Renzi, eletto nel 2013 si è dimesso all' inizio del 2017, dopo aver perso il referendum. Nel 2019 si è dimesso dal Pd per fondare Iv. Nessuno li ha mandati via, hanno fatto bene ad andarsene, soprattutto il secondo.
E poi tutto sto piagnisteo sul futuro del Pd, fatevene una ragione, le persone hanno scelto un'altra strada, quella percorsa fino ad ora li aveva portati alla deriva. Così è andata, se non vi piace buttatevi su Iv, vi stanno aspettando. Fenomeni che siete, depositari della verità...