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Il mare
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Uno .....
Nel paese di Pontasserchio la circolazione è definita "centro abitato", quindi ci sono i 50km/ h max

Da dopo la Conad ci sono ancora i 50km/ h fino .....
di Ugo Magri
Ring costituzionale. Meloni e Schlein non vogliono una riforma, ma un trionfo

15/4/2024 - 9:02

Ring costituzionale. Meloni e Schlein non vogliono una riforma, ma un trionfo

L’impossibilità di mediare sul premierato. Entrambe contano sul referendum per spazzare via l’altra. Così avremo una pessima Costituzione oppure l’immobilismo. Il ruolo disarmato di Pera

C’è una voce che grida nel deserto delle riforme, ma nessuno le dà retta. La Cassandra inascoltata si chiama Marcello Pera e, per quanto di mestiere non faccia il giurista (ha insegnato Filosofia della Scienza) con la Costituzione ha una certa familiarità se non altro perché è stato seconda carica della Repubblica tra il 2001 e il 2006. Conosce le regole “da dentro”, oltre che sui tomi accademici. Alle scorse elezioni si era illuso di poter dare una mano come senatore dei Fratelli d’Italia, salvo constatare che lì vige una disciplina ferrea, sconosciuta all’allegro mondo berlusconiano (insieme con Lucio Colletti, Saverio Vertone, Giorgio Rebuffa e Piero Melograni, Pera era stato uno dei “professori” che il Cav esibiva come fiore all’occhiello). Una persona sola decide per tutti, Giorgia Meloni. Se lei imbocca una strada, gli altri la seguono perfino giù dal burrone. Come nel caso della riforma costituzionale.


Pera ha obiettato che l’impianto traballa, il disegno di legge è pieno di strafalcioni. Non è il primo e nemmeno l’unico a nutrire riserve sul premier direttamente eletto; una trentina di esperti sfilati al Senato hanno detto di molto peggio. Ma il professore, che della Commissione affari costituzionali fa parte, è andato oltre alle critiche. Ha presentato alcune proposte per rattoppare le falle. Emendamenti ispirati al buonsenso, prima che alla dottrina anglosassone di cui Pera è cultore. Formule migliorative, insomma. L’hanno guardato con occhi strani, della serie “il Capo non è d’accordo, chi te lo fa fare”. Lui però ha insistito perché non ha nulla da perdere, autostima a parte; come d’incanto, s’è ritrovato solo; nel deserto appunto. Quando interviene, non vola una mosca. Nessuno osa obiettare (pochi dei commissari sarebbero in grado) ma è come se Pera parlasse a un muro. Ascoltano, poi fanno il contrario. E fin qui nulla di strano: laddove vige il culto del Capo, l’indipendenza è scambiata per cattivo carattere. Funziona così da che mondo è mondo.


L’aspetto curioso è un altro: il prof non se lo filano nemmeno a sinistra, perfino quando ne avrebbero convenienza. E qui c’è da porsi qualche interrogativo. Per esempio, nei giorni scorsi Pera ha proposto lo Statuto delle opposizioni che consiste, o consisterebbe, in una serie di garanzie da inserire nella futura Carta, tra i pesi e i contrappesi di cui ogni democrazia ha bisogno per non precipitare nella tirannide. Da destra hanno detto subito no, gli sconfitti si arrangino, chi vince le elezioni comanda e stop (fa parte in fondo del loro Dna). La vera sorpresa è venuta dall’altra parte, con il “vade retro” del Pd che ha respinto la proposta di Statuto come se fosse veleno. Nella maggioranza, ovviamente, si sono fregati le mani e hanno silenziato Pera: “Lo vedi? I Dem non hanno la minima intenzione di dialogare. Tanto vale procedere come treni”. Il piano è di approvare la riforma in prima lettura entro le elezioni europee in modo che nei comizi Giorgia possa dire: “L’ho promesso, l’ho fatto”.


Cambiare il testo, a quel punto, diventerà difficile. Sulla carta si potrebbe, in seconda lettura; ma bisognerebbe ricominciare daccapo e ciò richiederebbe una volontà politica che le protagoniste non hanno, semmai il contrario. Tanto la premier quanto Elly Schlein si sono date già appuntamento al referendum, quando sarà, convinte entrambe di vincerlo facile. Giorgia è sicura che il popolo risponderà “presente”: come potrebbe rifiutare l’offerta di scegliersi il leader anziché farselo imporre dai partiti, dall’Europa, dai “salotti buoni” e, caso limite, dall’inquilino del Quirinale che sceglie i “tecnici”? Elly punta invece sulla demonizzazione, sulla denuncia del nuovo fascismo, sulla smania di potere della “Ducetta” da contrastare in qualunque modo.


Alla prima, cioè Meloni, non importano i cosiddetti dettagli. Interessa che nella riforma ci sia il premier direttamente eletto, da esibire come uno scalpo. Quello è imprescindibile, costi quel che costi. Se l’opposizione ci sta, bene; altrimenti pazienza, ne farà a meno e tanti saluti. L’altra, Schlein, ragiona specularmente; quasi che migliorare il pastrocchio per lei significhi contaminarsi e assumerne la responsabilità. Per cui se ne tiene alla larga e le proposte migliorative, quelle alla Pera per intendersi, o dei giuristi vicini al Pd, vengono viste come fumo negli occhi perché Elly scommette tutto sull’”effetto Renzi”, ovvero la sicumera del presunto vincitore. Matteo, come Meloni, era sicuro di intascare il referendum confermativo e invece sappiamo come andò a finire.

 
O l’una o l’altra, chiaramente, si sbaglia. L’esito sarà un tiro di dadi condizionato da mille variabili, impossibili da prevedere adesso. L’unica certezza è che, in entrambi i casi, avremo un pessimo risultato. Una riforma scritta con i piedi che i costituzionalisti bocciano all’unanimità; oppure, in alternativa, l’immobilismo perpetuo condito dalla retorica della Costituzione “più bella del mondo”.

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