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Massimiliano Angori
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Analisi Verso le Europee; di Emilia Patta
No al nome nel simbolo Pd: la retromarcia di Schlein e la soglia di sopravvivenza al 20%

22/4/2024 - 19:48


No al nome nel simbolo Pd: la retromarcia di Schlein e la soglia di sopravvivenza al 20%


La segretaria del Pd, dopo la rivolta dei big, rinuncia a personalizzare il logo ma si candida comunque alle europee al Centro e alla Isole: cruciale far dimenticare le inchieste pugliesi. Con Bonaccini a Strasburgo si pone il tema della rappresentanza della minoranza interna

I punti chiave

La retromarcia dopo la sollevazione delle correnti
La tentazione del nome nel simbolo
Le critiche di Prodi e il paradosso della personalizzazione
L’avvertimento di Annunziata
Bonaccini nel mirino
La paura di non superare la soglia psicologica del 20%

«O mi candido ovunque o mettiamo il mio nome nel simbolo del Pd». Questo, più o meno, il bivio prospettato di fatto dalla segretaria Elly Schlein ai dem riuniti domenica in direzione per l’approvazione delle liste per le europee. Poi, a urne chiuse in Basilicata, la retromarcia via Instagram: non ci sarà il nome della leader nel simbolo e non ci sarà la sua candidatura ovunque ma solo, come capolista, nel Centro e nelle Isole.

La retromarcia dopo la sollevazione delle correnti

Una retromarcia a tutti gli effetti, dunque, vista la sollevazione di tutte le correnti che la hanno appoggiata al congresso dello scorso anno: da Dario Franceschini alla sinistra di Andrea Orlando e Giuseppe Provenzano fino a Nicola Zingaretti. Ma come mai la segretaria dem è stata a un passo dal compiere una scelta così di rottura rispetto alla tradizione del Pd? Sicuramente ha pesato la tempesta giudiziaria che si è abbattuta sul partito barese e pugliese, con le inchieste su voto di scambio e corruzione che hanno toccato la giunta comunale e soprattutto quella regionale guidata da Michele Emiliano. Ossia uno dei “cacicchi” a cui la segretaria venuta dai movimenti e fino al momento delle primarie non iscritta al Pd aveva giurato guerra durante la campagna congressuale.

La tentazione del nome nel simbolo

Ad irritare Schlein nelle scorse settimane, infatti, non era stata tanto la decisione del leader del M5s Giuseppe Conte di far saltare le primarie giallorosse e Bari, nonché di uscire dalla Giunta di Emiliano al grido «la legalità per noi non è un valore negoziabile», quanto proprio il sistema di potere radicatosi negli anni nella Puglia del “ras” e portato alla luce dalle inchieste. Sempre Conte le aveva rivolto le parole più scottanti: «Cambi il Pd prima che il Pd cambi lei». E la risposta di Schlein è stata istintivamente duplice: prima la decisione di stampare sulle tessere del Pd gli occhi dello storico leader del Pci Enrico Berlinguer, l’inventore e il paladino della “questione morale”; poi la tentazione - rientrata in corner - di mettere il suo nome dentro il simbolo del Pd imitando un’usanza della destra ripresa anche dalla premier Giorgia Meloni per il suo partito, Fratelli d’Italia. L’intenzione era appunto quella di gettare tutto il peso della sua freschezza e per così dire della sua estraneità alla storia del Pd per mandare il messaggio di quel radicale rinnovamento più volte annunciato e che nella compilazione delle liste per le europee si è potuto esprimere di fatto solo con pochi volti (Lucia Annunciata, Cecilia Strada e il pacifista Marco Tarquinio) . Quasi che il Pd fosse appunto la bad company descritta da Conte.

Le critiche di Prodi e il paradosso della personalizzazione

In questo modo però Schlein si è esposta non solo alle critiche del fondatore dell’Ulivo e prima tessera del Pd Romano Prodi («così si chiede agli elettori di dare il voto a una persona che di sicuro non ci va a Bruxelles se vince: queste sono ferite alla democrazia che scavano un fosso»), ma - paradossalmente - anche al ribaltamento delle sue stesse critiche contro l’eccessiva personalizzazione della politica. Schlein ha sempre contrapposto il Pd come “comunità” ai partiti personali della destra e ha sempre usato il “noi” al posto dell’”io” per distinguersi dalla stagione renziana (ma perfino Matteo Renzi non ha mai ha imposto il suo nome nel simbolo del Pd quando ne era il segretario).

L’avvertimento di Annunziata

A questa contraddizione se ne aggiunge un’altra, più sottile ma non meno insidiosa: evidentemente Schlein, che spera di superare indenne le europee anche grazie al suo personale apporto, punta già da ora a personalizzare lo scontro con Meloni per le future elezioni politiche del 2027. Un corpo a corpo tra due candidate premier che mal si sposa con la feroce opposizione che il Pd, proprio su input di Schlein, sta facendo in Senato contro il premierato targato centrodestra. Mettere il nome nel simbolo avrebbe implicato l’accettazione del modello, come correttamente ha avvertito in corner Annunziata, mettendo «a disposizione» il suo nome in lista. «Il nome nel simbolo è la trasformazione del Pd in un partito personale proprio nel momento in cui la maggioranza ha presentato una riforma, il premierato, che distrugge l’attuale assetto costituzionale. La scelta del nome nel simbolo mette il Pd sulla strada dell’accettazione dello stesso modello. Su molte cose in un partito si può mediare ma non su questioni di questo rilievo».

Bonaccini nel mirino

La rivolta dei big del Pd e l’avvertimento pesante di Annunziata: alla fine Schlein ha scelto di desistere e non forzare la mano alla sua “comunità”. Ed ora i cocci, paradossalmente, restano più dalle parti della minoranza interna. La proposta di mettere il nome nel simbolo l’ha infatti avanzata il presidente del partito Stefano Bonaccini, che oltre ad essere il governatore dell’Emilia Romagna è anche il leader della minoranza interna (Energia popolare) in quanto perdente delle primarie aperte agli elettori di un anno fa dopo aver vinto il congresso tra gli iscritti. E ora sono in molti, tra i riformisti, a puntare il dito contro il loro leader: è evidente - è l’accusa - che Bonaccini ha barattato la questione del nome nel simbolo con la sua candidatura come capolista nel Nord Est e con una discreta rappresentanza di candidati riformisti tra europarlamentari uscenti e sindaci (Da Giorgio Gori a Dario Nardella, da Matteo Ricci ad Antonio Decaro). Con Bonaccini che sta per traslocare a Strasburgo, in ogni caso, per la minoranza del Pd si porrà a breve la questione di darsi un punto di riferimento in Italia.

La paura di non superare la soglia psicologica del 20%

Quanto a Schlein, la confusa gestione della sua candidatura e anche la questione del nome nel simbolo mostrano quantomeno un’incertezza dettata dalla paura: quella di non superare la soglia psicologica del 20%, stretta tra le critiche a tutto campo di Conte (questione morale e pacifismo) e la competizione delle liste al centro (Azione e quella appena varata da Emma Bonino e Matteo Renzi, Stati Uniti d’Europa) e a sinistra (Verdi/Sinistra italiana, che hanno scippato proprio a Schlein la candidatura di Ilaria Salis). Una cosa è certa: per la giovane segretaria del Pd venuta dai movimenti quella dell’8 e 9 giugno è la battaglia della vita.





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