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In questo nuovo articolo di Franco Gabbani viene trattato un argomento basilare per la società dell'epoca, la crescita culturale della popolazione e dei lavoratori, destinati nella stragrande maggioranza ad un completo analfabetismo, e, anzi, il progresso culturale, peraltro ancora a livelli infinitesimali, era totalmente avversato dalle classi governanti e abbienti, per le quali la popolazione delle campagne era destinata esclusivamente ai lavori agricoli, ed inoltre la cultura era vista come strumento rivoluzionario. 

Sei fuori tema. Ma sappiamo per chi parli. . .
. . . non so se sono in tema; ma però partito vuol .....
Quelle sono opinioni contrastanti, il sale della democrazia, .....
. . . non siamo sui canali Mediaset del dopodesinare .....
per pubblicare scrivere a: spaziodonnarubr@gmail.com
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Pisa, 16 maggio
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Nei tuoi occhi languidi
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Nel paese di Pontasserchio la circolazione è definita "centro abitato", quindi ci sono i 50km/ h max

Da dopo la Conad ci sono ancora i 50km/ h fino .....
di Emilia Patta
Il no al Jobs Act e la strategia di Schlein: superare il renzismo e coprire la sinistra

7/5/2024 - 23:12


Il no al Jobs Act e la strategia di Schlein: superare il renzismo e coprire la sinistra
La decisione di firmare i quesiti abrogativi della riforma renziana lascia di stucco i riformisti dem. Eppure se passassero i referendum non tornerebbe l’articolo 18. L’asse con Conte e Landini per una nuova «cosa rossa»

I punti chiave

La decisione di Schlein di firmare i quesiti: chiusa stagione del riformismo?
I dati: negli ultimi 15 anni il lavoro stabile è aumentato
L’allarme di Ichino: tornare indietro disincentiverebbe gli investimenti esteri
Se passassero i referendum non tornerebbe l’articolo 18
Dalla segretaria dem una scelta ideologica contro il «renzismo»
Il progetto di una nuova «cosa rossa» e il disagio dei riformisti dem
Anche il no al premierato è un tassello della strategia schleiniana

Fine della reintegra sul posto di lavoro previsto dall’articolo 18 del vecchio Statuto dei lavoratori, sostituita dall’indennizzo economico «a tutele crescenti» a seconda dell’anzianità professionale. Sono passati quasi dieci anni da quando Matteo Renzi, allora premier e segretario di un Pd primo partito d’Italia, rompeva l’ultimo tabù della sinistra e approvava, ovviamente con il voto favorevole dei parlamentari dem a parte qualche mugugno nella sinistra bersaniana, il Jobs act. Che resta ancora oggi l’ultima riforma complessiva del mercato del lavoro: l’obiettivo era da una parte superare la selva dei contrattini a tempo determinato con l’introduzione del contratto unico a tutele crescenti, dall’altra estendere a tutti i lavoratori le tutele previste per quelli a tempo indeterminato e introdurre per la prima volta con la Naspi un sussidio di disoccupazione universale.
La decisione di Schlein di firmare i quesiti: chiusa stagione del riformismo?
Fiore all’occhiello del riformismo dem, quella riforma che non è stata del tutto attuata per mancanza di fondi viene ora identificata dalla Cgil, dal M5s e dalla sinistra interna ed esterna al Pd come responsabile del precariato, soprattutto giovanile. E la decisione della segretaria del Pd Elly Schlein di firmare a titolo personale il quesito referendario abrogativo proposto dal sindacato rosso sembra mettere la pietra tombale sulla lunga stagione del riformismo dem spostando definitivamente a sinistra l’asse del partito.

I dati: negli ultimi 15 anni il lavoro stabile è aumentato

Ma davvero il Jobs act ha aumentato il precariato? Dai dati non sembrerebbe proprio, come ricorda il “padre” della riforma renziana Pietro Ichino, che già da parlamentare del Pci (sic) propugnava il modello scandinavo della flexsecurity: «I dati Inps e Istat dicono il contrario di quello che sostiene il leader della Cgil Maurizio Landini: negli ultimi quindici anni la probabilità di essere licenziati è rimasta invariata, mentre i rapporti a tempi indeterminato sono aumentati sia in valore assoluto sia in percentuale sulla forza lavoro e i rapporti a termine sono rimasti circa un sesto del totale, in linea con la media Ue». Per l’esattezza, secondo le serie storiche dell’Istat a marzo 2015 il numero di occupati in Italia era di 22.014.000, a marzo 2024 siamo saliti a 23.849.000. Gli occupati permanenti, vale a dire gli assunti a tempo indeterminato, nello stesso periodo considerato, sono passati da 14.316.000 a quasi 16 milioni (15.966.000 per l’esattezza). E l’occupazione a termine, a marzo 2024, è a quota 2.828.000, senza particolari boom, e in linea appunto con le medie internazionali.

L’allarme di Ichino: tornare indietro disincentiverebbe gli investimenti esteri

«Per altro verso - continua Ichino - l’armonizzazione della nostra disciplina dei licenziamenti rispetto al resto dell’Ue, attuata con quel decreto resta indispensabile se vogliamo evitare un disincentivo all’afflusso degli investimenti esteri dei quali l’Italia non può fare a ameno per promuovere l’aumento della produttività del lavoro e quindi anche delle retribuzioni. La riforma dei licenziamenti ha portato infine a un dimezzamento del contenzioso giudiziale su questa materia, eliminando un’anomalia tutta italiana».

Se passassero i referendum non tornerebbe l’articolo 18

Non solo. Anche dal punto di vista squisitamente tecnico i quesiti referendari della Cgil, se ammessi al voto e poi effettivamente approvati, non produrrebbero effetti significativi. «Praticamente nulli», sottolineano i giuslavoristi. Intanto perché, dopo le modifiche del 2018 operate dalle sentenze della Corte costituzionale il Jobs act non è più lo stesso ma è stato modificato, riducendone la portata. Eppoi, se pure fosse cancellato, come chiede chi propone il referendum, non si tornerebbe l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970. «Si tornerebbe alla legge Monti-Fornero del 2012 - spiega sul Sole 24 Ore Maurizio Del Conte, professore di diritto del Lavoro all’università Bocconi di Milano - che aveva già scalfito la tutela reintegratoria, moltiplicando le fattispecie di licenziamento e diversificando le sanzioni, creando però solo incertezze e contenzioso».

Dalla segretaria dem una scelta ideologica contro il «renzismo»

Insomma, se passassero i referendum di Landini non si resusciterebbe affatto il mitico articolo 18 con la rientregra. E allora perché Schlein si è accodata al leader del M5s Giuseppe Conte firmando, dopo di lui, i quesiti della Cgil? Evidentemente la decisione non è stata dettata dal merito, tanto che anche un leader della sinistra interna come Andrea Orlando ha dichiarato che non firmerà, quanto da una presa di posizione ideologica contro il “renzismo”. D’altra parte il superamento di quella stagione riformatrice era un obiettivo dichiarato della giovane leader movimentista e non iscritta al Pd (si è iscritta, per una modifica statutaria approvata sotto la segreteria di Enrico Letta, solo a fine congresso): nei comizi per le primarie aperte, poi vinte nel febbraio del 2023 dopo aver perso il congresso tra gli iscritti, Schlein si è scagliata più volte contro il Jobs act e anche, ad abundantiam, contro la riforma costituzionale Renzi-Boschi del 2016 che mirava ad abolire il Senato elettivo superando l’anomalia italiana del bicameralismo paritario (riforma poi bocciata dagli italiani, come si ricorderà, nel dicembre dello stesso anno).

Il progetto di una nuova «cosa rossa» e il disagio dei riformisti dem

Resta che l’adesione «a titolo personale» della segretaria del Pd ai quesiti di Landini arriva a sorpresa, senza passare per una discussione tra gli organi di partito, e lascia di stucco tutti i riformisti dem che parteciparono a quella stagione di governo: da Lorenzo Guerini a Marianna Madia, da Alessandro Alfieri allo stesso presidente del partito Stefano Bonaccini, in molti si dissociano dalla segretaria o quantomeno (è il caso di Bonaccini) sono seriamente imbarazzati di fronte a un partito che si adopera a distruggere ciò che lo stesso partito aveva costruito. Non è un caso che finanche uno sponsor della prima ora di Schlein come Dario Franceschini dichiari la sua contrarietà. Eppure la strategia di Schlein è chiara e, va detto, non nascosta: colpetto su colpetto, cambiare i connotati a quel Pd nato quindici anni fa dall’idea di Walter Veltroni di unire i diversi riformismi italiani (ex comunista e socialista, cattolico, liberaldemocratico) per farne una cosa tutta rossa, a marcare la sinistra del campo politico, in accordo e raccordo con il M5s di Conte (il quale, ovviamente, mira alla leadership del futuro nuovo campo progressista, ma questo è altro discorso).

Anche il no al premierato è un tassello della strategia schleiniana

Emblematica anche la strategia comunicativa e politica scelta in merito alla riforma del premierato messa in campo dal governo: nessun dialogo, muro contro muro al grido di “no all’uomo o alla donna soli al comando”. Dimenticando che il premierato, o meglio il governo parlamentare del primo ministro, è sempre stato nelle corde del centrosinistra e del Pd veltroniano a vocazione maggioritaria: dalla Tesi numero 1 dell’Ulivo nel lontano 1995 alla bozza Salvi della Bicamerale D’Alema di due anni dopo fino allo stesso Statuto del Pd che presupponeva e presuppone un modello elettorale maggioritario incentrato sulla figura del segretario-candidato premier.
Tutto legittimo, ovviamente, ma resta da capire il destino, se non il senso, dell’ampia area riformista rimasta nel Pd in nome del pluralismo. La cui strategia non può certamente essere quella di attendere che l’ennesimo rovescio elettorale disarcioni l’ennesimo leader dem.





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