Nei suoi numerosi articoli sulla storia del territorio, Franco Gabbani ha finora preso come riferimento, personaggi o avvenimenti storici, inquadrandoli nella cornice degli usi e delle norme dell'epoca.
Questa volta prende spunto da situazioni e argomenti curiosi, spigolature come le chiama.
Al di là dei fatti precisi, quello che colpisce particolarmente, è il linguaggio usato nei documenti, non solo formale e involuto, come da sempre ci ha abituato la burocrazia, ma spesso anche di difficile comprensione, esplicitando l'evoluzione continua della lingua e dei termini.
Il nuovo articolo di Franco Gabbani non riguarda un personaggio o un evento in particolare, ma esamina un aspetto sociale e lavorativo che, presente da molti secoli, ebbe grande sviluppo nell'800 ( fino all'inizio del '900), ma che fortunatamente terminò relativamente presto, grazie agli sviluppi economici e scientifici.
Si tratta del baliatico, un'attività spesso vista benevolmente, ma , come scrive Antonio Cortese, "le balie da latte possono essere considerate la fascia privilegiata di lavoro migrante, almeno per quanto riguarda salari e status all’interno della famiglia che le ospitava. Ma non si può dimenticare, d’altra parte, il trauma rappresentato dalla necessità di lasciare a casa il figlio appena nato per nutrire con il proprio latte i figli altrui».
Situazione che ha fatto definire il baliatico come " calamità occupazionale".
E ancora una volta Franco ci offre uno spaccato dettagliato dell'epoca.
MAMME IN AFFITTO
di Franco Gabbani
In un precedente articolo abbiamo esaminato uno dei problemi che interessarono l’800: quello dell’infanzia abbandonata.
Nel Granducato di Toscana questi bambini erano chiamati “innocentini” “esposti”, “bastardini”, “trovatelli”, “gettatelli”, “orfanelli”.
Il problema degli abbandoni si lega al fatto che la quantità degli “esposti”, era diventata particolarmente elevata verso la fine del 1700, anche perché nei secoli precedenti, per risolvere il problema del peso dei figli sulla famiglia, veniva, occasionalmente, fatto ricorso all’infanticidio. La sopravvivenza di questi bambini era affidata alla possibilità di trovare una balia che si sostituisse alla madre naturale nell’allattamento.
Poiché i brefotrofi non disponevano né di attrezzature, né di personale adeguati, ci si rivolgeva all’esterno.
I registri di “Stato delle anime” delle parrocchie, conservati presso l’Archivio Storico Diocesano di Pisa, testimoniano che un buon numero di famiglie aveva, fra i componenti, un trovatello che, in generale, veniva accolto o nel periodo successivo alla morte di un neonato oppure quando il proprio figlio veniva svezzato.
I motivi di questa scelta erano diversi: potevano dipendere dal fatto che il prolungarsi dell’allattamento diminuiva il rischio di nuove gravidanze, o anche dal fatto che lo si riteneva un buon investimento, infatti la balia riceveva un compenso, “la mesata”.
Infine, ad invogliare balie e famiglie, era la prospettiva di potersi valere, in futuro, di una forza lavoro gratuita attraverso l’adozione del “gettatello”.
Qui però non intendiamo soffermarci sul lavoro delle balie svolto negli ospedali dei bambini abbandonati o a casa propria, ma sul lavoro che queste donne svolgevano presso ricche famiglie toscane, italiane e, perfino, in famiglie di altre nazioni.
L’intento è quello di dare visibilità ad un lavoro nascosto, un lavoro che insieme ad altri segnò l’evoluzione della donna e che contribuì a reggere un sistema economico in periodi di crisi.
Si trattava di donne che, spinte dalla fame e dalla disperazione per la mancanza dell’indispensabile alla sopravvivenza, misero a disposizione del mercato del lavoro la parte più intima e segreta della loro vita di donne, i seni e il latte prodotto dopo un parto, per bambini di famiglie che potevano permettersi di far allattare i figli da altre donne.
Erano “le mamme in affitto”.
Per la sopravvivenza della famiglia queste donne, quindi, mettevano a frutto un bene particolare: il latte materno prodotto dopo il parto, garantendosi così una buona fonte di reddito. Questo lavoro nasceva all’interno del mondo agricolo, le balie da latte erano, infatti, quasi sempre mogli di mezzadri, di braccianti, di lavoratori stagionali.
Nel corso dell’800, e anche per la prima metà del ‘900, il baliatico si trasformò in un vero e proprio lavoro, per il quale si era creato un vero e proprio mercato con una domanda e un’offerta.
Nelle famiglie aristocratiche, ma anche presso quelle della nascente borghesia, la balia da latte diventa, insieme alle altre figure della servitù, una specie di status simbol, che attesta l’affermazione economica e sociale della famiglia che la ospita.
Questa pratica, che oggi ci appare assurda, nasceva dall’enorme disparità economica e sociale esistente fra le due realtà: da una parte, famiglie così bisognose da “vendere” il latte materno privandone la propria prole, dall’altra, famiglie così ricche da poter addirittura pensare all’acquisto di questo latte.
A mediare fra queste donne e le famiglie altolocate c’erano le “procaccine”, anziane dei paesi che individuavano le giovani in grado di allattare e le proponevano ai signori di città, garantendo, contemporaneamente, sulla salute e la moralità di queste donne.
Inoltre, per quelle che accedevano al baliatico privato a domicilio, spostandosi per circa due anni presso una nuova famiglia, era previsto per contratto che venissero rescissi i rapporti con quella di origine al fine di evitare nuove gravidanze, malattie infettive, richiami affettivi che avrebbero potuto compromettere la continuazione del buon allattamento del figlioccio.
Nel corso dell’800 per le balie da latte si aprì un nuovo mercato: quello dell’Egitto.
Era l’effetto della costruzione e del traffico marittimo del Canale di Suez che favorì la concentrazione, nella città di Alessandria e del Cairo di tecnici (per la maggior parte inglesi) con le relative famiglie, e, contemporaneamente, richiamò queste donne a nutrire i figli delle anemiche inglesi, stabilitesi nel paese dei faraoni.
Una volta arrivate nella casa dei “padroni”, le balie venivano trattate bene: manipolavano una merce preziosa.
Spesso mangiavano a tavola con i padroni che, in questo modo, potevano controllare che assumessero un’alimentazione adeguata allo scopo per il quale erano state assunte.
Spettava loro anche un corredo di indumenti intimi, vestiti da casa e per le feste, vestaglie, grembiuli, pettorali ricamati e pieni di trine.
Per queste contadine poverissime e disperate si trattava di uno stravolgimento enorme rispetto alla vita precedente, ma il prezzo che pagavano era altissimo, una lacerazione che lasciava segni profondi: abbandonavano infatti il proprio bambino.
Il giorno della partenza, i giorni precedenti, il momento della separazione rappresentavano dei ricordi terribili, pieni di pianti, di ripensamenti, di bisogno di sostegno da parte della famiglia di provenienza e di quella del marito, per garantirsi che il bambino fosse trattato bene, mentre la madre era via.
La dura esperienza della separazione dai figli veniva, a volte, aggravata dal fatto che era difficile ritrovare lo stesso posto nel loro cuore al momento del ritorno.
Per queste donne la vita era dura prima, tanto da indurle alla partenza e, una volta ritornate, era ancora dura perché il salario della balia per quanto ottimo (anche tre o quattro volte quello di un uomo) era limitato nel tempo, e le cause di disagio economico che avevano spinto alla partenza, tornavano e incatenavano di nuovo la donna a lavori interminabili, a continue gravidanze, a difficoltà oggi inimmaginabili che spesso le costringevano a ripartire per allattare altri figli di famiglie ricche, con nuovi spargimenti di lacrime all’andata e al ritorno.
Va aggiunto, infine, che questa esperienza lavorativa le aveva rese diverse dalle loro compaesane rimaste nella terra d’origine: spesso avevano assunto abitudini, comportamenti e idee della famiglia del “padrone” e, una volta rientrate, si rendevano conto di essere differenti dalla gente del contesto rurale di origine.
Nella seconda metà del ‘900 finisce la pratica del baliatico: si comincia a parlare di “miracolo economico”, la povertà c’è ancora ma è meno disperata, e, fattore più impostante, è arrivato il latte in polvere.
BIBLIOGRAFIA IMPIEGATA:
Dadà: Balie da latte. Istituzioni assistenziali e Privati in Toscana tra XVII e XX secolo. Morgana Edizioni, Firenze 2002.
Cortese: Il baliatico nell’emigrazione italiana tra Otto e Novecento. “ALTREITALIE” n. 53 (luglio-dicembre 2016).
Bravi: Le storie di Rita, Santina e delle altre balie migranti (del latte), “Corriere Fiorentino” del 28 Maggio 2024.