Un esperienza di crescita di gruppo famiglia grazie a due meravigliosi cucciolotti.
RAFEE, figlia di una galga spagnola abbandonata incinta, salvata da un associazione .Tutti i cuccioli sono stati adottati.
UGO meticcio di una cucciolata abbandonata. Saputo successivamente che insieme ai fratellini è stato protagonista di un servizio TV sui cani abbandonati..
Nel voler farvi partecipi nel mio giromondare sono partito dal Tanganica e poi dalla Siria, ma il battesimo lo avevo avuto anni prima in un paese lontanissimo e un poco traumatico: il Sudafrica nella sua città più industrializzata: Johannesburg.
Primo lavoro ambito, primo volo in aereo, primo contatto con la popolazione nera e prima responsabilità: tutto liscio, ma una cosa non andava per il verso giusto: l’apartheid, la bestia nera che veniva dai bianchi.
Il viaggio era lunghissimo da Roma alla fine del continente africano, proprio in fondo, tanto da fare due scali: Atene, anche troppo vicina e Kinshasa nel mezzo all’Africa. All’arrivo una rappresentanza dell’Italia con funzionari dell’ambasciata porge i saluti di benvenuto e un discorsetto che mi dà un anticipo dell’aria che tira il quel paese:
Non fraternizzate troppo e se, caso fosse che vi trovano con una donna nera, date addio al passaporto e all’Africa!
In quella città l’Italia non doveva andare in fiera, aveva il suo padiglione, un immenso stanzone con pareti di vetro dove c’era da sistemare pavimento, luci e stand, aiutati da tre o quattro negri, uno dei quali parlava benissimo la nostra lingua. La prima cosa che mi fece restare a bocca aperta fu l’apertura della porta d’ingresso da parte di quello che parlava italiano, Daniele si chiamava, con la richiesta che urlassi e battessi due legni (mi sembrava strano ma urlai) con il risultato che decine e decine di uccelli si lanciarono verso la luce e sbatterono nei vetri cadendo storditi. Erano poco più piccoli dei colombi, neri con placche rosse sotto gli occhi, belli ma anche buoni disse Daniele. Ci mettemmo a srotolare i tappeti quando gli altri operai cominciarono a urlare: “mamba mamba” facendomi pensare ad un ballo, ma la voce tremava, non era melodica e infatti era un urlo di attenzione al serpente mamba, il più velenoso fra i rettili e che poteva trovarsi nascosto nei rotoli. Passavano i giorni e cresceva la mia amicizia con Daniele e la voglia di vedere la vita che la popolazione indigena faceva. Sul bordo delle grandi strade urbane c’erano panchine con la targhetta: “european only”, bus per neri e bus per bianchi e altre cosette da vomito o da diarrea.
Su un marciapiede incontrai e mi scontrai con un vecchio nero che stava contando delle monete e non mi aveva visto, le monete caddero e io mi chinai per raccoglierle e restituirle al proprietario, ma qualcosa non tornava, il vecchio tremava e indietreggiava e dovetti far forza per farmi intendere. Non era abituato a simili comportamenti dall’uomo bianco! Passavo il tempo libero a parlare con Daniele ma sempre nel padiglione, lui mi raccontava della sua famiglia, della lotta che il popolo bantu, quello che formava la maggioranza dei nativi, aveva fatto e stava facendo ed ero così orgoglioso che mi avesse accettato come amico e non come estraneo, che gli promisi che avrei dato il suo nome al figlio che mi stava per nascere e che, guarda le coincidenze della vita che mi seguono troppe volte da non farmi piacere anzi disagio, nacque quattro mesi dopo… il giorno di San Daniele!
Troppi di casa mia e di mia moglie avevano già deciso un altro nome!
Era la mia prima fiera, la prima lontananza dal suolo natio, ero curioso e pauroso allo stesso tempo, non guardavo chiese e palazzi, ristoranti o locali, ma la vita intorno a me e questo fece nascere l’amore per chi soffre, chi non viene ascoltato e che crebbe con gli anni e i diversi, fortunatamente, lavori nel “continente nero” che mi fecero entrare il “mal d’Africa”.