Nella prestigiosa Sala Gronchi del Parco Naturale di Migliarino, San Rossore e Massaciuccoli, il 20 ottobre alle ore 16, avrà luogo la cerimonia di premiazione della dodicesima edizione del concorso artistico-letterario "Area Protetta", organizzato da MdS Editore, Associazione La Voce del Serchio e Unicoop Firenze Sezione Soci Valdiserchio-Versilia.
A cura di Elsa Luttazzi
Quando ho letto questo libro Il mare in un imbuto. Dove va la lingua italiana (Einaudi 2010), di Gian Luigi Beccaria, ho subito pensato alla Settimana enigmistica e mi è sembrato un libro da portare in vacanza : un libro da vacanza ma con la mente ben al lavoro. Ora che mi sono decisa a scrivere non è più tempo di vacanza e quindi, a maggior ragione val la pena affrontare un po’ di impegno, ma all’insegna del divertimento.
Gian Luigi Beccaria è linguista e critico letterario raffinato, ma ha scritto questo libro per un pubblico non professionista, un pubblico, certo, che legge e che riflette e che ama discorrere con pacatezza:
Le pagine che seguono sono costruite in dialogo con i miei lettori, coi quali in questi anni ho intessuto discorsi. Della conversazione mantengono il tono. Molto è fluito dalla mia rubrica settimanale che da anni compare il sabato su “Tuttolibri”: molto di lì ho ripreso, rifuso, ampliato, e ricomposto insieme con altre pagine inedite.
Nel primo capitolo significativamente intitolato Dubito, se parlo, si parte, appunto, dai dubbi quotidiani che tormentano chi parla e, soprattutto, chi scrive, formulati in maniera interrogativa, quasi fossero domande di un cruciverba divertente e istruttivo. Ironicamente si chiede: chi non ha mai scritto per distrazione, o chi non si è mai chiesto, o chi non ha mai fatto errori di doppia, cui consegue l’avvertimento scagli la prima pietra. Un gioco leggero e distensivo ma che guidato sapientemente dall’autore apre a tratti squarci di storia del linguaggio, di vicende etimologiche dimenticate, di meccanismi semantici ignorati. Scopriamo così una lingua assai vivace e poco irreggimentata, in continua oscillazione tra tendenza e norma, tra tendenze che dovrebbero essere contrastate e quelle, invece, che dovrebbero essere incoraggiate, piena di viscosità e “illogiche” asimmetrie, apparenti incongruenze, che non accettano categoriche definizioni di giusto sbagliato. Tanto che
Si ha l’impressione che in italiano regni l’anarchia, che non ci siano regole. In realtà ci si dimentica che, come dicevo, prima le lingue sono usate, e soltanto in un secondo tempo i grammatici ne traggono delle regole, le quali però rispetto all’uso vivo sono sempre incomplete, ammettono eccezioni, “errori”, doppie possibilità.
È l’uso che decide:
Non sono un prescrittivo, so bene che in lingua difficilmente s’impone una proposta anche organica che d’autorità provenga dall’alto. Penso che si debba sempre rispettare un uso già consolidato.
E l’uso prevede anche una sorta di errori definiti da Beccaria “produttivi”, segni di cambiamento e fonti di evoluzione linguistica. La lingua non è un catechismo, ma accanto a questo apporto spontaneo all’espressività linguistica emergono anche gli errori, talvolta esilaranti , legati a false equivalenze, “etimologie popolari” “associative”, opera maldestra del parlante incolto:
Celebre l’arguta pagina di Primo Levi dell’Altrui mestiere, su alcune false equivalenze popolari da lui raccolte di prima mano, dai raggi ultraviolenti, all’aria congestionata, alla lingua sinistrata, alle inizioni indovinose, al verme sanitario. Basta chiedere a un farmacista. Uno di loro mi ha segnalato richieste da parte di clienti di tintura d’odio, di zoccoli o ciabatte atomiche, anziché anatomiche, di supposte di nitroglicerina o di aspirina fosforescente, e anche di rimedi per i tricicli alti (i trigliceridi); e di calze ad alta comprensione venale, di lavanderia vaginale (lavanda), di vaccino contro la rosalia, di gocce idrauliche (idroalcoliche); “ho il playbach” (pacemaker) ha detto un tale, “ho avuto un ics” (ictus) confessava un secondo, “ho male alle aggiunzioni” (giunture) un terzo cliente, e ancora “ho la verticale” (cervicale), “ho il polistirolo alto” (colesterolo), “ho fatto il topless” (doppler).
Accanto poi agli errori involontari brillano per arguzia i sinonimi e le definizioni inventate, veri “inganni e sortilegi” della lingua. Ne citerò solo alcuni, per non compromettere la sorpresa e il divertimento di chi vorrà leggere il libro:
natante “bambino che nuota” o gabbiano “uccello che sta chiuso in gabbia, o mulatta,” femmina del mulo”.
Etimologie e storie curiose, serio e faceto si intrecciano in una lettura che è sempre fonte di apprendimento.
Errore consueto è rúbrica, corretto rubríca, dal lat.rubrīca(m), con la i lunga. Il lat. Rubrica terra era la terra rossa, o meglio l’argilla ocra che si utilizzava per scrivere e evidenziare i titoli delle leggi. Nel Medioevo indicava un titolo a inchiostro rosso, ruber, che si poneva a capo dei singoli capitoli di un manoscritto. Poi prende, già anticamente, il significato di “indice alfabetico”, significato che conserva ancora, sia pure rivolto a altro oggetto, per indicare quel libretto coi margini a scaletta segnati con le lettere dell’alfabeto. Di qui estensivamente è passato poi a indicare la sezione di un giornale, di una trasmissione radiofonica, o televisiva, dedicata a un determinato argomento.
La grammatica, si è detto, non è un insieme di regole e risposte precise definibili con granitica certezza, ma piuttosto un percorso pieno di incertezze e contrassegnato da bivi che consentono libertà di scelta. Per avere una guida sicura soprattutto quando si passa dal registro informale e colloquiale a quello sorvegliato della scrittura e gli errori diventano imperdonabili e oggetto anche di una censura sociale, allora non resta che il vocabolario, inventato, si dice, dagli italiani (Vocabolario della Crusca, 1612), di cui Beccaria tesse un appassionato elogio:
Ogni vocabolario della lingua italiana, a saperlo leggere, racconta attraverso le parole il nostro presente, e il nostro passato. È memoria collettiva che contiene nei suoi lemmi gli avvenimenti, le novità, le scoperte,le scelte di secoli andati ma anche di anni appena trascorsi. Racconta non soltanto la grande, ma anche la piccola Storia. Nel vocabolario della nostra lingua ci sono voci significative che rimandano addirittura a episodi precisi, a vicende e personaggi, con una messe di allusioni capaci di offrire a ogni italiano un “luogo” nel quale riconoscersi.
Beccaria vuol comunicare il suo amore per la lingua italiana e svelare ai suoi lettori la sua ricchezza e la duttilità espressiva, di cui strumento fondamentale sono l’uso appropriato dei sinonimi:
Abbiamo bisogno di distinguere, di sfumature, perché la realtà è sfumata. I perfetti sinonimi non esistono. I sinonimi non sono degli optional, bensì ricchezze, da spendere nel modo più appropriato.
E l’uso del congiuntivo, per quanto ovunque in declino:
Alcuni si chiedono se il congiuntivo sia proprio indispensabile. Perché usarlo? Perché non usarlo significa dire di meno. Significa rinunciare alla possibilità che la lingua ci dà per esprimere meglio un nostro giudizio, una nostra ipotesi, un nostro dubbio, un nostro pensiero. Rinunciare al congiuntivo significa rinunciare a un mezzo che coglie le sfumature della nostra immaginazione, dei nostri desideri o speranze.
Una ricchezza che contrasta fortemente con il linguaggio impoverito e sguaiato oggi trionfante.
Oggi la volgarità del linguaggio è diventata la norma. Non nasce da emarginati, da poveracci o disperati, non ha la funzione trasgressiva di liberare istinti repressi. Né resta confinata in un ambito speciale: penso al turpiloquio che s’usava tra le mura dei collegi, o in caserma. Adesso tanto l’insulto quanto la parolaccia scorrono a ruota libera, talvolta come puri riempitivi, ma rumore che colma un vuoto, una pura presa di fiato.
Nei capitoli successivi Beccaria si interroga sui percorsi e le prospettive dell’italiano di oggi, in bilico tra salute e malattia, ricchezza e povertà , in perenne confronto con altre lingue, soprattutto l’egemone inglese , che però non viene demonizzato, anzi:
C’è chi si preoccupa, e protesta perché la nostra lingua si sta inquinando e deteriorando a causa degli anglismi che la invadono. Anche se si sta esagerando, rimango dell’idea che non c’è argine che tenga. Anzi, ribadisco che più si è mescolati e più si è ricchi. La forza dell’inglese non sta forse nell’aver incorporato negli ultimi secoli gran quantità di latinismi, grecismi, francesismi, ed esotismi da ogni parte del globo?
La lingua italiana si trova impegnata in un continuo vivace confronto anche con i diversi dialetti. Oggi polemicamente si dibatte sul ruolo che deve essere assegnato loro nella comunicazione. Beccaria tratta i dialetti con tutto il rispetto e l’amore che si deve loro in quanto espressioni significative e importanti della cultura popolare, ma ribadisce che l’italiano deve trionfare, contro ogni anacronistico tentativo di dare statuto di lingua alle molteplici comunità dialettali.
Il dialetto per la mia generazione è il nativo, il luogo familiare, è heimlich, come dicono i tedeschi. Pochi come noi lo amano e lo hanno amato (e studiato). Ma la nostra lingua di comunicazione e di cultura, quella di tutti gli italiani, è l’italiano, diventato dopo tanto la lingua di tutti, la lingua della scuola, dei tribunali, dei giornali, della Tv. Ci riconosciamo da secoli in questa lingua comune, il suo effetto aggregante ha molto contribuito in passato al conseguimento dell’unità politica. Non esisteva ancora la nazione, ma da secoli esisteva l’unità linguistico -letteraria nazionale.
In omaggio alla cultura popolare che nei dialetti soprattutto si esprime, Beccaria dedica spazio al vocabolario degli antichi mestieri artigianali e rurali che oggi trovano espressione solo nei musei, accanto agli ormai obsoleti strumenti di lavoro. Di fronte alla sconfinata ammirazione per una straordinaria intelligenza artigiana lo scrittore non mostra però rimpianto: non si può dimenticare che rimandano a mondi di povertà e fatica. Profondamente legate alla stessa cultura sono le feste, i riti, il cibo (dolci rituali), ricorrenze ritmate da un calendario profondamente inspirato al sacro: battesimo, cresima, Natale, Quaresima , Carnevale e giorni dei defunti. Acute frasi idiomatiche e antiche metafore conservano ancora oggi i rimandi al mondo della religione e della chiesa e alla liturgia in latino non compresa e trasformata in motti arguti ( Beccaria ha scritto su questo tema un altro bel libro, Sicuterat, Milano 1999).
Altri capitoli del libro sono dedicati all’italiano e al suo autonomo svolgersi nella forma di linguaggi settoriali, dal politico (significativamente intitolato “Inganni” ) allo sportivo, al linguaggio dei giovani.
L’ultimo capitolo infine è riservato al linguaggio più paludato e costruito dei professionisti della scrittura, poesia e prosa, lo scrivere, ma anche il leggere, perché, come scriveva Daniel Pennac nel suo Come un romanzo:
“L’uomo costruisce case perché è vivo ma scrive libri perché si sa mortale”.
“E l’uomo vive in gruppo perché gregario, ma legge perché si sa solo. La lettura è per lui una compagnia che non prende il posto di nessun’altra, ma che nessun’altra potrebbe sostituire.