Nei suoi numerosi articoli sulla storia del territorio, Franco Gabbani ha finora preso come riferimento, personaggi o avvenimenti storici, inquadrandoli nella cornice degli usi e delle norme dell'epoca.
Questa volta prende spunto da situazioni e argomenti curiosi, spigolature come le chiama.
Al di là dei fatti precisi, quello che colpisce particolarmente, è il linguaggio usato nei documenti, non solo formale e involuto, come da sempre ci ha abituato la burocrazia, ma spesso anche di difficile comprensione, esplicitando l'evoluzione continua della lingua e dei termini.
Rubrica a cura di Elsa Luttazzi
Oggi vorrei rivolgermi alle donne, o, meglio, a quelle Care ragazze evocate dal titolo di un recente libro di Vittoria Franco (Donzelli, 2010), ricercatrice di Storia della Filosofia alla Scuola normale superiore di Pisa, senatrice dal 2001, ex responsabile delle Pari opportunità del Partito Democratico. La scrittrice afferma nella sua prefazione di voler semplicemente redigere un promemoria (così recita anche il sottotitolo del libro)
Un tentativo di fare il punto, di capire e ripartire. Ho cercato di farlo con un linguaggio semplice, diretto, rivolgendomi alle più giovani senza paternalismi, ma con la consapevolezza che le protagoniste sono loro.
Diversi e tutti importanti i punti di partenza di questo prezioso libretto. Prima di tutto la scrittrice ricorda che i “diritti” delle donne sono acquisiti, non sono dati “per natura” e quindi ricostruisce tutto un percorso per dare a questi stessi diritti la loro dimensione storica:
Voglio solo raccontare. Raccontare in che modo si è arrivati a elaborare sguardi femminili, sulla storia e sul presente, con quanta competenza centinaia di studiose abbiano fatto emergere punti di vista, figure e fatti rimasti celati per secoli.
Passa quindi a ricordare rapidamente alcune conquiste recenti, alla cui realizzazione ha contribuito la stessa Franco e che non devono essere messe in discussione, pena essere ricacciate nei ruoli tradizionali. Occorre sapere che
Prima del 1946 le donne non godevano del diritto di voto; che prima del 1970 in Italia non era possibile divorziare, che prima del 1978 l’aborto era illegale e punito severamente; che fino al 1975, quando entrò in vigore il nuovo diritto di famiglia, la donna era una persona sotto tutela degli uomini, il padre il fratello, o il marito, e che non aveva neanche diritto all’eredità; che prima del 1995 la violenza sessuale era un delitto contro la morale e non contro la persona e che fino al 1981 l’uccisione della moglie era catalogata come delitto d’onore con sanzioni lievi, e così via.
Questi diritti, come sono stati acquisiti, possono essere perduti: le forme di discriminazione mutano, si mimetizzano, ma restano e si ripropongono in continuazione, spesso sotto forme ingannevoli. Oggi, in particolare, le giovani generazioni femminili che si trovano a godere di una libertà straordinaria e mistificante debbono vigilare per non confondere
La libertà sessuale conquistata nei decenni del femminismo con lo scambio sessuale, e l’autodeterminazione con la disponibilità totale di se stesse come corpo da esibire e da offrire: corpi muti, senza parola, apostrofati con vezzeggiativi come “velina”, “letterina”, “meteorina”.Ecco cosa rischiano di rappresentare le donne nell’immaginario collettivo:esseri fragili, persi in una cultura narcisistica del corpo, che appare come espressione di libertà, ma che può divenire una nuova forma di assoggettamento.
In una delle mie ultime recensioni accoglievo l’invito di Maurizio Viroli (La libertà dei servi) a distinguere la libertà dei servi da quella dei cittadini e, conseguentemente, a riappropriarsi della libertà in senso civico. Ora vorrei lasciare a V.Franco il compito di descrivere che cosa nel concreto significhi esercitare il diritto-dovere della cittadinanza:
Dunque, cittadino o cittadina è colui o colei che gode di diritti in una condizione di libertà. Godere di diritti significa anche poter disporre di una fetta di sovranità; pensiamo al diritto di voto. Durante la Rivoluzione francese ci si rivolgeva gli uni agli altri chiamandosi cittadini e cittadine, proprio per enfatizzare la conquista di diritti fondamentali e di spazi di sovranità. Erano proprio questi che segnavano il passaggio dall’essere sudditi di una monarchia assoluta all’essere cittadini di una repubblica, dall’assoggettamento totale al sovrano alla possibilità di partecipare alle decisioni sugli affari pubblici.
Esercitare questo diritto è stata una conquista recente per gli uomini, recentissima, tanto da essere ancora fragile, per le donne. Per avere un'idea delle difficoltà che le donne hanno incontrato in questo percorso vorrei qui ricordare che il filosofo Jean Jacques Rousseau che ha contribuito alla formazione di rivoluzionari e riformatori, il cui pensiero è associato alle idee di eguaglianza, di libertà e alla stessa fondazione della democrazia moderna, escludeva rigorosamente le donne dal suo progetto. V. Franco così scrive:
È istruttivo leggerne qualche passo e verificare come, secondo il pensatore ginevrino, la natura assegni ai due generi facoltà e ruoli diversi e incompatibili: l'uomo è dotato di ragione, la donna di passioni e sentimenti; l'uomo è cittadino, la donna è moglie e madre. "La vera madre di famiglia, anziché essere una dama del gran mondo, non sta meno tappata in casa della monaca nel suo chiostro".
Di tutte le altre testimonianze che la scrittrice porta per dimostrare come in tutti i modi si voleva impedire che le donne si aprissero a una vita pubblica, e che vorrei che le lettrici alle quali in fondo anch'io mi rivolgo in maniera privilegiata, scoprissero da sole, vorrei citare solo la proposta di uno dei protagonisti della Rivoluzione francese, S. Maréchal, a favore di "una legge per vietare alle donne l'apprendimento della lettura". Un motivo in più, mi sembra, per leggere.
Emerge quindi con forza il durevole stereotipo di una donna fatta su misura dei desideri maschili, al quale però alcune donne si ribellano con forza. V. Franco ricostruisce una ricca galleria di queste donne coraggiose . Olympe de Gouges è tra le prime: a lei si deve una vera e propria"carta dei diritti delle donne" nella quale chiedeva che le donne fossero riconosciute come soggetto e potessero partecipare all'esercizio della sovranità:
Tutte le cittadine e tutti i cittadini, essendo uguali ai suoi occhi, devono essere ugualmente ammessi a tutte le dignità, posti e impieghi pubblici, secondo le loro capacità e senza distinzione che quella delle loro virtù e dei loro talenti.
La sua voce fu messa a tacere immediatamente con la condanna alla ghigliottina, il 3 Novembre 1793. E passerà molto tempo prima che vengano riprese le fila del discorso . Progetti ed idee tuttavia maturano fino ad imporsi in maniera esplosiva nel Novecento. Fra le testimonianze a noi più vicine vorrei almeno ricordare Hanna Arendt e Virginia Woolf per soffermarmi solo sulla filosofa Luce Irigaray . I suoi scritti risultano spesso assai impegnativi ma V.Franco ha le parole giuste per renderli comprensibili. Luce Irigaray, per prima, non mette al centro delle sue rivendicazioni l’eguaglianza, anzi, arriva a teorizzare come valore la differenza di genere.
Il pensiero della differenza diventa allora il nuovo, necessario, contesto per realizzare progetti di vera autonomia e libertà, e riorganizzare nei confronti dell’uomo una relazione senza dominio; una reale uguaglianza fra soggetti che si riconoscono nella reciproca autonomia e nel rispetto delle reciproche differenze.
E ancora:
L’uomo e la donna divengono dunque cofondatori di un nuovo ordine sociale, la cui costruzione è impresa comune dei due generi, frutto dell‘alleanza fra due soggetti che godono allo stesso titolo dell’appartenenza all’universale, però in quanto generi che sanno della loro parzialità e non aspirano a essere il tutto.
Per fare in modo che le donne riescano a costruire una identità e una cultura loro, Luce propone un “pacchetto di diritti civili della donna” e il primo diritto che elenca è il
Diritto alla dignità umana, e quindi: non più uso commerciale dei loro corpi o delle loro immagini.
Solo con l’accrescimento di questi diritti ed il consolidamento della vera libertà le donne possono ambire alla loro autorealizzazione , alla loro affermazione nel lavoro e nella famiglia, a realizzare insomma un progetto di vita che vede come momento finale
L’orizzonte della democrazia paritaria, del riconoscimento del desiderio femminile di potere pubblico per la costruzione comune delle istituzioni democratiche.
Alla luce di quanto si è detto, tornando alla contemporaneità, con Vittoria Franco mi chiedo:
È esagerato sostenere che, dopo più di due secoli, l’obiettivo della realizzazione della piena libertà e indipendenza non è ancora alla nostra portata e che sono in atto comportamenti che spingono nella direzione di un rinnovato ritorno al passato attraverso un sofisticato controllo del corpo femminile?”.
Una risposta in questo senso viene da un particolarissimo segmento della società femminile:
La giovanissima Noemi che esprime i suoi desideri considerandoli equivalenti e scambiabili: fare la ballerina, l’attrice o la parlamentare, “deciderà papi”, e si consegna interamente al potente di turno pur di arrivare al successo, rinunciando all’elaborazione autonoma dei suoi progetti di vita, è destinata a diventare il modello generale di comportamento?
V. Franco propende per una conclusione ottimistica, ma certo è che le giovani donne dovranno impegnarsi molto.
Vorrei ora tentare un’incursione, spero non maldestra, nel terreno per me completamente nuovo del mondo cinematografico di cui ho pratica solo come cinefila per parlare di un film recente, Agorà, diretto da Alejandro Amenàbar, protagonista Rachel Weisz.
Questo film narra la storia di Hypazia, donna di grande intelligenza e coraggio, nonché bellezza, astronoma e filosofa, vissuta ad Alessandria d’Egitto nel IV secolo D.C., all’epoca dell’impero Romano. Alessandria era al tempo al centro di intensi traffici commerciali, di cui era simbolo il faro del suo porto, una delle meraviglie del mondo dell’epoca; era anche un famoso centro culturale, di cui resta memoria nella mitica biblioteca. In quel periodo tre religioni si contendevano il potere: il paganesimo con il culto di Serapide, divinità greco-egizia, l’ebraismo, il cristianesimo. La violenza infiammava gli animi e la città e Hypazia testimone della cultura antica, tenace assertrice della verità delle scienze contro ogni integralismo rimase prigioniera nella biblioteca assediata per cercare di salvare il salvabile, mentre tutti fuggivano. Alla fine Hypazia venne condannata a morte dal vescovo Cirillo che era riuscito a impadronirsi della città, grazie alla forza dei parabolani, braccio armato del cristianesimo.
La storia vede anche lo svolgersi di una storia d’amore non corrisposto tra Hypazia e due suoi giovani discepoli , Davus, il suo giovane schiavo segretamente convertitosi al cristianesimo e il ricco Oreste futuro prefetto dell’impero, anche lui convertito, ma per ragioni opportunistiche di potere.
Il film è stato criticato dai puristi delle ricostruzioni storiche e definito un “peplum post litteram”, cioè palesemente finto, hollywoodiano anche per questa vena di sentimentalismo, in quanto non suffragata da testimonianze . Ma io credo che si possa permettere una divagazione quando si resta fedeli al personaggio e non se ne stravolge il messaggio, soprattutto se si vogliono veicolare importanti valori al grande pubblico. Tra questi messaggi sono stati sottolineati con forza dai diversi critici quelli attinenti l’atto di accusa contro tutti i fanatismi religiosi e gli estremismi e la grande dignità di Hypazia intellettualmente colta e tollerante, pronta a sottolineare “più le cose che uniscono che quelle che dividono”. Ma io vorrei sottolineare anche il suo essere aliena da ogni tipo di violenza , una vera pacifista, come emerge anche dal confronto con il padre Teone, filosofo anche lui, ma propenso a una risposta violenta contro i nemici e incline a praticarla anche nei confronti degli schiavi: Hypazia eguale e diversa come diceva Luce Irigaray.
Anche la lettura, affidata al vescovo Cirillo di quel passo della Lettera ai Corinzi di San Paolo che invita le donne a stare in silenzio, è forse troppo immediata e strumentale ma in fin dei conti perfettamente adeguata alla dimostrazione di una delle vie della creazione dello stereotipo tuttora vivo che vuole le donne lontane dalla vita pubblica e che possiamo affiancare a quello, ancora più antico e non religioso legato al filosofo Aristotele (IV A.C.) , come Vittoria Franco ci ricorda, il quale
Escludeva le donne dalla attività pubbliche perché esseri per natura inferiori; le considerava dei ”maschi sterili”. Da un’ideale “etica del cittadino”le donne erano escluse. Per secoli esse furono confinate nella sfera privata, domestica, ritenute adatte esclusivamente alla riproduzione, fatte per occuparsi dell’oikos, della famiglia, della casa.
Accogliamo quindi da qualsiasi parte vengano tutti gli esempi pedagogicamente utili per far crescere la consapevolezza delle donne di oggi e per sentirsi solidali in questa impresa con le donne delle altre civiltà del mondo globalizzato che stanno cercando una loro via all’emancipazione.